Toglietegli di dosso, al Cristo, anche solo per un istante la Madre-dolorosa: impossibile, lo so bene, anche solo immaginarlo. Sarebbe più facile separare la luce dal sole che la Madre dal Figlio: “Non ci lasceremo mai”, si promisero nei trent’anni di giornate tutto-cuore vissuti a Nazareth. Lasciatela dov’è, allora: non è d’intralcio, cammina a bordo-strada lungo il Calvario. Avanzatela d’un metro e ditemi: “Tolta lei, esiste donna più bella di Veronica in quella via che conduce al paese della Croce?” Non ha un volto, non ha una storia, ha solo una stazione in salita costruita in memoria di lei: «Veronica asciuga il volto di Gesù». Una targa, come in quella stazione dei treni di campagna intitolata al ferroviere morto, alla donna in partenza, ai paesani andati altrove anni addietro. E’ di una discretezza unica questa femmina: manco i Vangeli dicono qualcosa di lei. E’ arrivata a noi sulla bocca della devozione e della pietà: sembra il primo bozzetto della Pietà di sabato sera, quella della Madre che (ri)accoglie in grembo il Figlio, ch’è suo Dio. Al posto di Maria, lungo la salita, c’è Veronica: non ha volto, non ha storia, così anche io, che pur sono un maschio, posso sentirmi lei. E chiamarmi Veronica.
Passò alla storia per un fazzoletto. Anche nel fazzoletto che teniamo nella tasca ci sta nascosto un firmamento di stelle, basta accorgersene: «I gabbiani nascono dai fazzoletti che s’agitano alla partenza della nave» (R. De La Serna).
A Dio, in quella matta salita popolata di matti, vollero asciugare le lacrime con le banconote. Veronica, invece, gli tese un fazzoletto. Dopo il Pane fattosi corpo, quel fazzoletto è l’oggetto che più m’incuriosisce di questa settimana, di tutta la pietà: Enea, che conduce il padre Anchise in spalla, le viene appena dopo. Me l’immagino di continuo quel pezzo di tela: temo somigliasse a quelli di cotone che mi regalava nonna, con le iniziali del nome cucito a mano. “Ciao, mi chiamo Veronica, ho solo un fazzolettino, sono piccolina: è per te, mioddio. Fatti vicino che t’asciugo il tuo bel Volto”. Prima, di lei non sappiamo nulla. Dopo, di lei non sappiamo più nulla. Come se fosse venuta al mondo per porgere il fazzoletto: tutta la sua vita è stata prepararsi, lungo la salita, a quel passaggio. Tutta la sua eternità, sarà gustarsi il guadagno di quel gesto: “Avevo le lacrime agli occhi, tu me li hai asciugati, Veronica: entra con me in Paradiso”. Lui con lei, lei con Lui.
Per una lacrima? Sì, per una lacrima: c’era tutto Cristo in quella lacrima.
Che una creatura accarezzi il Creatore lo trovo un gesto d’una drammatica bellezza: d’allora, se vuole, l’uomo potrà consolare Iddio, come Veronica, e non soltanto chiedere a Dio d’essere consolati da Lui. Fece quel gesto lì, poi si ritirò ancora a bordo strada, in mezzo a quel corteo di femmine ch’eran state, in vita, la vacanza segreta di Cristo. Che, su per la salita del Calvario, rimangono a sua disposizione, il suo domicilio segreto. Con il suo fazzoletto trasformò il Calvario in una lavanderia: un fazzoletto bagnato è materia sufficiente perchè un poeta riesca a sollevare il mondo. Eccola, Veronica: nella giornata mondiale dei chiodi e del sangue, è la bella lavanderina, quella che lava «i fazzoletti per i poveretti della città. Fà un salto, fanne un altro, fa la riverenza, fa la penitenza. Ora in su, ora in giù. Dà un bacio a chi vuoi tu». Fu solamente per pudore che, forse, non baciò il Cristo con le labbra: baciò, di nascosto, il fazzoletto in modo tale che un bacio deposto fosse un bacio donato a chi volle lei: al più brutto dei bellissimi, al più Dio di tutti gli dei, all’Uomo della Croce ch’era di passaggio per quella strada in salita. Quel giorno nacque al mondo Veronica, il fazzoletto di Cristo: «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi. Così intenso il tuo desiderio di sapere che l’effige è nel cuore» (K. Wojtyla). La guardo Veronica, ha il volto che mi (ri)guarda: non piange se qualcosa finisce, sorride perchè accade. Ha Cristo in tasca adesso.
(da Il Sussidiario, 10 aprile 2020)
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