Celebrazione del Venerdì Santo (Anno A)
Caro Gesù, anch’io stasera prendo carta e penna e ti scrivo. E non ti nascondo tutta la mia delusione nel pensare a quant’erano belli i tuoi piedi che passeggiavano leggeri sulla terra di Genesaret; a quant’erano dolci e amabili le parole che dipingevi sulle tue labbra; a quanti sorrisi hai ricostruito, a quanti piedi hai raddrizzato, a quanti cuori hai ridato coraggio. La vedova di Naim, il cieco di Gerico, gli abitanti di Cafarnao, le due sorelle di Betania tutti perfetti sconosciuti che il tuo volto ha consegnato alla celebrità della storia. Mi ricordo il volto di quei quattro pescatori che, primi tra tutti, hanno sentito il peso della tua fantasia: nei loro occhi vibrava la poesia, germogli di una bellezza tante volte cantata dalle gole riarse dei vecchi profeti. Profeti e pescatori, dotti e illetterati, santi e peccatori, genio e ribellione tutti dentro la tua sinfonia avevano il loro posto. E per te addio vecchie barche rattoppate, reti ubriache di pesci, profumo di salsedine, nostalgia della donna amata, sicurezze montate dalle dita dell’uomo. Nei loro occhi abbrustoliti dal sole riflesso sull’acqua del mare era trapassata una scheggia di follia: troppo grande il tuo sogno, le tue promesse, la tua voglia di rovesciare il mondo senza mezze misure! Tutti eroi per te. E come poter dar loro torto quando Uno ti disegna un sogno così?
Ieri sera, fuori dal cenacolo di Gerusalemme, ho incrociato il volto di Pietro, sconvolto per quel tuo testamento, per quel catino di acqua sporca che divenne la loro reliquia, per quel pane che non era più pane. Era nervoso perché tutti gli chiedevano: “Ma cos’è successo, Pietro”. I suoi muscoli di pescatore tremavano, i suoi occhi erano lucidi, le sue mani pitturavano pugni nell’aria e sotto quella camicia sudicia di sudore il cuore stava per cedere. Pietro e te, Gesù: ti ricordi i sogni, l’entusiasmo, le parabole, le folle che ti rubavano il sonno. Ieri sera era tutto un correre, uno scappare, un cercare disperatamente sicurezza in qualche sguardo. Arrivano i due figli di Zebedeo, Filippo si butta addosso a Pietro, Taddeo ha il volto rigato dalle lacrime. E, insieme, nascosti dietro un ulivo, disturbati solo dal chiarore della luna, m’han raccontato di quella sera: mare in tempesta, occhi impauriti, barca sbattuta sulle onde e Tu che, sdraiato sul cuscino, dormivi. E mi son fatto scrivere quella domanda che ti hanno rinfacciato, loro, i tuoi splendidi amici: “Maestro, non t’importa che moriamo?” (Mc 4,35-40). Loro, uomini di mare, conoscono i venti, conoscono l’insidia della corrente contraria che sconvolge qualsiasi viaggio, conoscono le reti annodate da dita ferite, forate da uncini, incallite, bruciate dal sole. Non nascondono il tormento, la delusione, il tradimento, l’afflizione. Che fortuna averli incontrati stasera, perché mi è d’aiuto sentir ringhiare tutti i loro dubbi mentre son accarezzati dalla tempesta, bagnati dal fluttuare delle onde. Perché tu don Marco, al pari di Pietro, sapevi che esistono tempeste, ma pensavi che non fossero tue. La tua barca era la più sicura, la meglio oleata per i giorni della pesca. Non pensavi che la tempesta potesse arrivare per te all’improvviso, non te l’aspettavi. Ma resisti. Vuoi resistere anche se le vele non ti sono più compagne, le gomene non ti rassicurano, il timone è fuori uso. E allora, sul legno di una barca o su un letto di corsia rinfacci la tua domanda: “Maestro, non t’importa che moriamo?” E aspettando che il miracolo avvenga, tenti di balbettare le parole del salmo: “Sono sfinito dal gridare, i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio” (Sal 69,3-4). Lo fai, perché ti hanno detto che c’è un Dio esperto in tempeste, conoscitore di venti, navigante di uragani. Ma la tempesta è lo spazio in cui ogni illusione di Dio svanisce, lo spazio in cui la bestemmia è l’ultima preghiera che rimane. Ma i pescatori non si rassegnano facilmente, non vogliono credere sia fallito tutto, non ci stanno a distruggere così il loro sogno: “Maestro, non t’importa che moriamo?” Strana coincidenza, gli fa notare Filippo: anche quella notte loro, pescatori che pur dovevano essere esperti di tempeste, chiesero a quel Maestro Falegname che di lì a poco sarebbe stato appeso alla Croce, di aggrapparsi a lui per non morire. E Taddeo ricordò loro la reazione di Gesù che, puntandogli negli occhi, li rimproverò: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”.
Una domanda che li trasforma in pescatori che non hanno paura di lasciarsi provocare dal dolore, dall’ingiustizia di una vita che sembra bottega di sventura, non scappano di fronte all’uomo che urla: “Perché!?”, non offrono risposte magiche. Le loro barche, prima di essere riempite di pesci, devono dar ragione di una domanda: “A Dio, al tuo Dio importa se moriamo?”. E Lui, Maestro dei pescatori, non consegna solitudini, non fugge dalle responsabilità, si lascia provocare dal grido angosciato. Non teme la bestemmia, non persegue vie di vendetta. Per Lui, Figlio del fabbro di Nazareth, schiodare tre chiodi e scendere dalla Croce sarebbe un gioco da principiante. Quanti ne ha piantati e strappati. Sa come si fa. Sarà un miracolo facile, quasi nemmeno un miracolo. Ma non lo fa, perché il Maestro è complice di chi s’imbatte nella tempesta e gli offre la su Croce per condurlo a casa: scialuppa di salvataggio, ancora di salvezza. Perché il Maestro sana le tempeste, crea la vita.
“Maestro, non t’importa che moriamo?”. Stasera apriremo il Vangelo e troveremo scritto: “Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”. Da mezzogiorno alle tre: anche la morte ha le ore contate. Eppure stasera, senza fede, si scapperà terrorizzati, perché tutto sembra essere maledettamente folle. Per chi rimane risuonano splendide le parole del profeta Isaia: “Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,11).