Una vergogna che vive clandestina. Ma a rimettercene sono ancora una volta i sogni che albergano nell’animo dei piccoli atleti: quelli che li fanno sognare, faticare, alzarsi all’alba e rincasare presto al tramonto per credere davvero che dietro ogni record ci sia solo il sapore della fatica, il fremito di un cuore sotto sforzo, la passione che accende i primi passi. Con le mani nel fango fior di campioni, mezzi gregari, semplici amatori: incapaci d’accettare quel limite infranto il quale l’atleta diventa di colpo un topo di laboratorio, un mostro di chimiche costruzioni, una maschera di quel vecchio eroe che tutti credevano pulito. Risultati manomessi, record truccati, passione spenta.
Ma spenta la passione, muore il sostegno, le urla della gente, l’amore della strada: e il primo a rimettercene è l’atleta. Che dentro di sé non avverte più quella febbrile trasparenza che lo lega con le sue fatiche, i suoi limiti, i suoi cercati e tentati superamenti. Barthes, scrittore francese, mostrava come lo scatto del campione è “un vero e proprio impulso elettrico che prende di soprassalto certi corridori cari agli dei e fa loro compiere prodezze sovrumane”. Ma se gli dei l’abbandonano, il corridore non è più buono a niente. Persa la poesia e il fascino degli eroi antichi – affascinanti perchè vulnerabili al pari d’Achille – il doping firmò la sua prima vittoria quando s’accorse d’aver celebrato le esequie del mito. Iniziò lì, all’incrocio tra passione e follia, l’avvento di quel marchingegno che ha osato togliere agli dei il privilegio della scintilla. Dimenticando l’infida e inutile guerra di quell’Icaro che, ubriacatosi dell’ebbrezza del volo, s’avvicinò troppo al sole fino a fondere la cera e precipitare nel mare. Di lui rimase solo il tempio costruito dal padre in sua memoria.
Difficilissimo ricostruire una sana immaginazione dello sport quando oramai i record vengono costruiti in laboratorio, le classifiche riscritte mesi dopo, le medaglie olimpiche ritirate e ri-attribuite. Difficile e indegno della sua storia passata e gloriosa riassaporare la storia sublime di quel destriero a due ruote in sella al quale tentare nuove avventure, nuove barriere, sfidare le stagioni per la semplice gioia del pedalare. Grazie ai vari Riccò, Sella, Schumacher, Piepoli, Kohl, Rebellin e tutti quei volti anonimi che ingrossano e ingrassano medici e preparatori alla continua ricerca di un modo per fuggire ai controlli antidoping. Facce belle, pulite, trasparenti che il giorno dopo t’han fatto rimpiangere la fiducia tributata al loro passaggio, tanto sulle cime alpestri quanto nella scorribanda furiosa lungo la discesa dell’Aspin. La polvere e l’altare. Rimanevano solo loro, i giovani atleti, come speranza su cui ripartire per rialzarci. Fino al mattino in cui, aperto il giornale, non incappiamo nella paterna pedagogia d’un padre che, animato da un insano agonismo, porta la figlia a farsi le iniezioni dal medico. Quindici anni: il tempo dei tatuaggi e dei primi amori, dei jeans strappati e degli zaini colorati, dei graffiti sui muri e del muretto da abitare. Dei corpi che s’allargano, delle spensieratezza, della semplice gioia d’essere giovani. Un fiore appassito in un anonimo laboratorio: per non accettare il lento progresso, il sapore amaro di chi arriva secondo, la piccola verità di non essere padre di un talento naturale.
Quando nel 1972 il metereologo Lorenz si chiese se un battito d’ali di farfalla in Brasile poteva provocare un uragano in Texas qualcuno forse gli diede del ridicolo. Eppure basta un battito d’ali a creare tendenza. Ma le farfalle paiono belle nell’attimo in cui volano. O si poggiano libere: appena infilzate non dicono più nulla. Semplicemente s’afflosciano.
Come la storia di eroi caduti dall’Olimpo con il viso sporcato.