Sospetto che il verbo “aiutare” sia secondo solo al verbo “amare”: cos’altro è l’aiutare se non l’applicazione concreta dell’amare? Come un innamorato sa bene che il modo più credibile per dire “Mi manchi!” alla sua amata, senza poi sbugiardarsi, è quello di farsi trovare sotto casa sua, parimenti colui che aiuta sa bene che la forma più bella di carità è l’esserci quando la carne soffre. Quando una storia è in stato d’allerta. A volte è solamente una presenza, un “Eccomi, sono qui!”, una mano che stringe un’altra mano. Non è poco. Mani che si allungano, a mò di aiuto, sono più sante delle mani giunte che pregano: è nella sofferenza di una carne ferita che il Dio cristiano si nasconde per creare occasioni di carità. È questa la grande differenza tra l’aiutare l’altro e l’intromettersi in vie altrui: non è ciò che sei ma quel che darai che farà di te la persona che sei. Che diventerai.
Nei paesi, la gente, ch’è armata di proverbi, dice: “Aiutati che il Cielo t’aiuta”. La cosa curiosa, però, è che già aiutando senti d’essere in qualche maniera aiutato. Capita spesso, a chi soccorre qualcuno in difficoltà, di fare una scoperta curiosa: accorgersi di avere la possibilità di vedere riflesso se stesso in colui che aiuta. È una sensazione strana: vivendo da soli è come se la nostra vita fosse una fotografia che teniamo troppo vicina agli occhi per poterla osservare bene. Forse riusciamo a carpirne qualche particolare, un dettaglio, una sua parte. Ci è necessario allontanarla un po’, però, per riuscire a vederla nella sua interezza. La stessa cosa capita quando aiuto l’altro: aiutandolo è come se allontanassi un pò la mia storia da me per riuscire ad osservarla meglio. Riflessa nella storia dell’altro. Come se la vita usasse questo escamotage per riflettere su noi in terza persona, in maniera da farci conoscere meglio come siamo fatti, di quali fragilità è fatta la nostra vita, con quali frangenti è andata componendosi la nostra esistenza.
L’altro, dunque, diventa una sorta di specchio, l’occasione per vedere noi stessi in una maniera così pregante che quasi ci stupiamo: “In realtà è più quello che ricevo di ciò che riesco a donare” diciamo spesso, con un filo di modestia, quando riflettiamo a posteriori sulla nostra capacità d’aiuto. È vero: finchè siamo all’opera non ce ne accorgiamo, ma finito di prestare aiuto ci rendiamo conto che non è l’altro a stare meglio per il nostro bene fatto, ma siamo noi che stiamo meglio perchè, facendo il bene, abbiamo scoperto di stare bene. È la storia di tutti quei giovani che, gratuitamente, vanno per strada a trovare i barboni, in galera ad incontrare i malfattori, che entrano nelle emergenze per dare il loro contribuito. Non è solo una pratica cristiana, è un fattore umano: spartendo il tempo così, avvertono un non-so-che di novità irrompere nella loro vita. E, sentendolo sulla loro pelle, lo ritengono misteriosamente bello e appassionante al punto da intuire che, aiutando l’altro, aiuto me. Ci sentiamo più umani, rendendo più umano il mondo. E l’aiutare diventa quasi un passatempo. Una sorta di divertimento.
(da Specchio de La Stampa, 27 novembre 2022)
Una risposta
Verissimo don Marco. Grazie sempre per le tue parole che svegliano. Buona giornata