memoria

L’infinita memoria della Rete. Come di coloro che, per svariate ragioni, amano dire: “perdono ma non dimentico”. Che è come assicurare che, vita natural durante, quella notizia – che magari poi è un gesto, un’affermazione, uno scatto – ti rimarrà cucito addosso per sempre. Sei protagonista d’un fatto increscioso in tenera età: se a ottant’anni entrerai nella rete di Internet, scoprirai d’essere ancora là. Nonostante lo scorrere di un’intera vita abbia cambiato i tuoi lineamenti, le tue prospettive, forse anche il tuo modo di pensare e di ragionare. La memoria della rete: una specie di ergastolo informatico personale. Adesso non più. O quasi: da alcune settimane la Corte di Giustizia europea ha stabilito il “diritto all’oblio” dei cittadini, ovverosia la possibilità che la Rete cancelli quella parte della propria storia rivelatasi inesatta o ritenuta inopportuna. C’è da giurarci che non solo il colosso di Mountain View, Google per l’appunto, corra ai ripari lanciando servizi preposti alla richiesta di cancellazione. Ma che altri s’aggreghino a questa che fino a qualche settimana fa era un’esigenza e oggi è un diritto: il diritto ad essere dimenticati, per l’appunto. Ad invecchiare in pace.
Una battaglia di civiltà e di correttezza: quante storie di uomini e donne sono state striate, complicate, addirittura ricattate e rovinate per notizie che circolavano in rete senza alcuna fondatezza. Come se il mare informatico fosse uno spazio di navigazione scevro da qualsiasi manuale di guida, uno spazio in cui è lecito dire e fare di tutto sapendo d’essere protetti dalla solita scusa: “c’è scritto su internet”. Come una volta dicevano le nostre vecchie nonne: “l’ha detto la televisione”. Rimane da verificare se quello che c’è scritto è stato detto è stato prima verificato, chiarito e confermato alla fonte. Oppure se la verità di un’informazione – che sovente è collegata con una persona – dipende semplicemente dalla voce di chi la pronuncia. Troppe informazioni sono state smentite per poter ancora fidarsi ciecamente della rete. Quella rete che sovente diventa la cagione e la ragione di troppi luoghi comuni che somigliano sempre più ad un «un posto affollato come un mercato, dove le idee si trovano scontate» (G. Soriano). Scontate e quindi sospettabili di non essere merce di prima qualità: forse contraffatte, forse imperfette, certamente difettate. Chiedere il diritto all’oblio significherà, almeno idealmente, riportare la verità in alcuni frangenti della propria storia. Della propria faccia, l’unica storia che un giorno potremmo raccontare.
Un diritto che è anche speranza, quella fresca dei Vangeli: che l’uomo e la donna non siano il loro errore. Ci sono uomini e donne che hanno abitato le galere, che si sono macchiati di gesta illegali, che hanno pagato non solo il conto alla giustizia ma – avventura ben più ostica – hanno sciolto i nodi nella loro storia. Che, dunque, hanno il diritto di poter ripartire a scrivere una pagina nuova della loro avventura umana. Non si tratta di gettare il vecchio quaderno rabberciato, ma di voltare pagina: altre righe a disposizione, nuovi spazi per immaginarsi diversi, ancora occasioni di rinascita. Di chi sbaglia si dice “errante”, dello sbaglio si dice “errore”: il secondo rimane scritto nella memoria della propria storia, il primo ha il diritto ad un certo punto di prendere le distanze dal male compiuto e ripartire. Le carceri assicurano che basta l’ergastolo giudiziario per ricordare la gravità di certe gesta e di certe appartenenze. Non serve l’ergastolo della memoria collettiva per ricordare all’uomo il suo passato: per chi ha deciso di cambiare bastano le cicatrici rimaste cucite addosso. A meno che l’informazione non sogni d’essere l’archivio a disposizione per ricatti e riesumazioni del passato. Magari approssimative, imprecise e fantocce.

(da Il Mattino di Padova, 1 giugno 2014)

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