Villarboit – sulla tratta che da Milano corre verso Torino – è uno dei tanti Autogrill che costellano la rete autostradale italiana. Lì dentro, terzo bagno maschile a destra, campeggia tra le migliaia di proposte una scritta a pennarello nero (visibile a chi, ovviamente, in bagno si mette nella posizione di fruire del servizio) che si differenzia dalle altre: “Dio ti vede”. Mi son detto: “davvero il mio Dio non ha altro da fare che buttare l’occhio tra le fessure di un bagno?”. Non è la solita scritta, è la testimonianza di un’immagine di Dio – registrata in anni e anni di catechismo più o meno ortodosso – che ancor oggi è presente e raccontata a migliaia di giovani dentro gli oratori di città. Con annessa pretesa che il mondo giovane s’innamori e avverta il cuore battere confrontandosi con un Dio indiscreto costruito sui ricatti: “non vorrai mica dare un dispiacere alla mamma, vero?”. L’immagine di un Dio accigliato e col dito sempre puntato. Se la morte di Dio di cui tanti parlano è la morte di questa immagine di Dio, non ci resta che brindare alle esequie di un certo cristianesimo al quale è stata anestetizzata la forza dirompente del suo fascino. Eppure il Dio dei Vangeli è proprio diverso dal Cristo tranquillo e pacifico, dolce e remissivo, con il collo inclinato sulla spalla destra e gli occhi languidamente rivolti verso il Cielo. Quello tramandato dalla penna veloce e furba degli evangelisti è un Dio-Uomo deciso, convinto e libero, schivo quando serve e irriverente al momento opportuno, che spinge l’umanità in avanti senza armate e semina il terrore tra le schiere di Lucifero. Un Dio che accarezza come una madre e strattona come un amante, che innalza e abbassa, che strappa e ricompone. Che ti fa provare nostalgia e vergogna, ribrezzo e commozione, meschinità e santità. Nelle pagine dei Vangeli che raccontano di Lui non abita la nausea di Sartre e nemmeno l’assurdo di Camus ma ci trovi la possibilità della pienezza, fino alla possibilità di sfidare la morte. Appassionato e tremendamente geloso, Dio è un incrocio, sono strade che si intersecano, sono sentieri che promettono viaggi, ripartenze e passaggi. Vi abita l’uomo, il silenzio, la responsabilità. Il tempo, l’educazione e la follia. Ma anche l’infanzia, il profumo dei fiori, i giardini e le rose. L’operare di Dio è un bazar all’orientale, un bazar di idee, un ammasso di annotazioni scarabocchiate da un innamorato spensierato, annotazioni volanti nell’aria della storia. Dio è l’alfabeto dell’uomo che sta sempre in bilico tra la dispersione e il protagonismo, tra la cenere e la follia. Tra Lucifero e la Croce.
“Non è Dio a essere morto, ma una sua precisa immagine troppo spesso usata anche dalle Chiese per far leva sulle fragilità e sulle disgrazie umane: quella che giunge al tramonto è un’apologetica malata, che ha bisogno della caduta e del fallimento per insinuarsi nelle pieghe dell’umano; quella che si va spegnendo è una religiosità che ha buon gioco tenendo in vita quest’immagine deformata e sgraziata di Dio” (U. Sartorio, Introduzione a A. Corbic, Dietrich Bonhoeffer e Albert Camus. Due visioni dell’uomo “senza Dio” a confronto, Messaggero, Padova 2011, 15)
E’ morto Dio: il Dio degli uomini. Quello del catechismo tratteggiato nel bagno di Villarboit. Quell’altro Dio – quello registrato nel cuore della storia – è vivo più che mai. Lo stanno zittendo tra le strade della storia, ne stanno abbassando il volume nelle navate delle Chiese, lo stanno nascondendo negli incroci dell’esistenza. Eppure Lui è vivo più che mai. Vivo e combattivo: parola di Matteo, l’evangelista della domenica.
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
(Dal Vangelo di Matteo cap. 23, 1-12)
Mi sono abbottonato la cintura, sciacquato le mani e ripulito il pensiero: di quel “Dio ti vede” non ho mai avvertito il bisogno. Fuori l’autostrada filava veloce, la gente distratta correva, negli oratori lungo la statale chissà che catechismo s’insegnava. Eppure quella scritta m’ha rincuorato e m’ha costretto a dire grazie all’altro Dio: quello simpatico, gioviale e fascinoso vissuto in Palestina attorno all’anno zero. Grazie perché non Gli è ancora venuto il voltastomaco per i miei peccati. Perché continua a nutrire fiducia in me, pur vedendo che tante altre persone Gli darebbero ben diverse soddisfazioni. Grazie perché non solo mi sopporta, ma mi fa capire che non sa fare a meno di me. Perché con me adopera infinite tenerezze e mi preserva da impietosi rossori. Perché mi fa celebrare l’eucaristia anche quando la coscienza della mia povertà mi fa sprofondare nella vergogna, ma senza espormi al ridicolo di fronte alla storia. Perché continua a custodirmi gelosamente, anzi a nascondermi come fa la madre con i figli più discoli. Discoli ma pur sempre creature sue, tutte sue.
Tutto il resto sono puntate della soap-opera “Il catechismo dell’autogrill”. Riservate esclusivamente a chi crede solamente in un Dio corrucciato e senza carattere. Alle esequie di quel Dio diciamo insieme: “finalmente se n’è andato”. Senza lacrima alcuna: perché quel Dio non è mai esistito nel cuore dei Vangeli.