Come il più sublime tra i gesti dell’amicizia. Perchè dentro i rotoli sacri della Scrittura essere amico altro non significa che porgerti l’invito più bello: “vorrei esserti compagno nel cammino; t’invito a fare un pezzo di strada con me”. Che è poi l’avvincente sorpresa dell’annuncio cristiano: c’è posto per te nella grande storia dell’umanità. E dentro questa cornice di siffatto splendore, l’amicizia di Dio – amicizia che lambisce lo spazio della confidenza fino a fondersi e confondersi in essa – diventa la grammatica dei sogni degli uomini. Ieri nella cattedrale di Padova sette giovani sono stati consacrati “diaconi”, ovverosia “servi” a servizio degli uomini. Le loro giovinezze sembrano stonare dentro la maturità del mondo adulto. Eppure, lette dalle prospettive divine, quella giovani esistenze somigliano molto a delle moderne start-up aziendali: anche qui, come in quelle più celebri dell’imprenditoria, si identifica l’operazione e il periodo nel quale si avvia un’impresa. Un’impresa che in questo caso corrisponde ad una missione: testimoniare al mondo che c’è ancora un Dio che con il lanternino in mano è alla disperata ricerca di uomini e donne che abbiano interesse per lui. Piccole “aziende umane” che con quelle più rinomate della Silicon Valley condividono l’intuizione originaria: non pensare che una cosa “non si possa fare” e quindi essere in grado di immaginarla. In Sua compagnia. Ad imbarazzare è la loro giovinezza: “quanto dureranno questi bambini?” – chiede la donna all’amica seduta al tavolino del Caffè davanti al Duomo. Eppure quella è la stessa identica giovinezza che tutti dicono di amare e di valorizzare, nella quali troppi dicono di crederci e di investirci, della quale tanti si fanno belli e semiseri. Per poi scoprire, a conti fatti, che a questa giovinezza si riserva sempre e solo il futuro, strappando loro l’urgenza e il fascino di giocarsi il presente. Protagonisti, certo: ma domani, però. Ad oltranza.
Dio, invece, li getta nella mischia; sembra mandarli addirittura al massacro, qualcuno di loro tornerà ferito: è la consapevolezza di poter un giorno fallire a rendere quegli sguardi liberi e imbarazzanti. Eppure dietro c’è tutta una storia che parla in loro favore: l’ardire di Davide contro Golia, l’ingenua freschezza di Geremia, l’avventura di Tobia e della sua donna amata, dell’avventuriero Giosuè gettato nella mischia appena dopo il grande Mosè. La biografia tentacolare e spavalda di Maria, pochi anni sulle spalle e tanta fiducia da parte del Cielo. A costoro Dio ha parlato usando l’urgenza del tempo presente non l’illusione del tempo futuro. Non ha usato il congiuntivo dell’esortazione e tanto meno l’imperativo del comando: ha rifiutato persino la possibile prudenza del condizionale. Ha rischiato il tutto per tutto: ha parlato loro al tempo presente: “voi siete il campo di Dio” (1 Cor 3,4-9), sintetizzerà san Paolo. Non illude Dio, non rimanda e nemmeno posticipa: chiede d’essere immediatamente protagonisti della propria storia per raccontare agli uomini l’amicizia di Dio. Nemmeno loro urleranno: saranno servitori di una Parola che è al tempo stesso una Presenza, di un grido che è consolazione, di un’amicizia che è confidenza.
Come gettare allo sbaraglio delle esistenze giovani: nessuna chiamata divina prevede un addestramento previo. Sono avventure a scatola chiusa, bizzarrie di un Dio che ama sfidare l’imprevisto, schizzi di uno Spirito che s’addentra nelle fessure del quotidiano. Perchè essere amici di Lui non significa essere raccomandati bensì servi, cioè l’esatto opposto. Una fregatura, insomma. Oppure la più sublime delle possibilità: perchè in un mondo di schiavi che si pensano liberi – schiavi anche dei favori dell’amicizia – l’unico modo per essere veramente liberi è diventare servi del Signore. Servi per amore.
(da Il Mattino di Padova, 27 ottobre 2013)