La sindrome del bavaglio sta attanagliando oggi la libertà d’informazione. Quello che vivendo con i bambini è un gesto di accortezza perchè non si sporchino mangiando la pappa – l’uso del bavaglio, per l’appunto – sta oggi divenendo l’emblema di un modo di agire che mette in serio pericolo non solo la libertà d’espressione ma la salute stessa della società civile nella sua completezza. Perchè mettere il bavaglio ad un’informazione significa bloccare o distorcere la conoscenza della realtà nella quale si vive fino a mettere a repentaglio la possibilità stessa di dirigere se stessi con onestà e obiettività. Qualche giorno fa su questo giornale la sempre puntuale Adina Agugiaro ha puntualizzato che la realtà giovanile non è sempre e solo quella degradata che racconta chi tiene in tasca i chiavistelli dell’informazione, ma c’è anche un lato giovane che s’arrischia nella difficile avventura di idearsi nel silenzio un’esistenza che rifugga il banale e il senso comune. Non raccontata come meriterebbe, anche questa fascia si trova a vivere col bavaglio e sul rischio di un’indifferenza funesta che, tacendo, racconta di loro come degli sprovveduti e fuori di moda dal contesto sociale. Perchè il bavaglio lo si mette ad un’idea, ad una telefonata, ad un pensiero: ma con il bavaglio si può soffocare un sogno, strozzare un tentativo di volo, annegare nel qualunquismo la creatività che giace ancora nell’animo di qualcuno. E questo non lo fa solo la politica con i suoi trucchi, ma è una tendenza innata in tutte quelle istituzioni – dalla più semplice alla più composita, dalle sacre alle profane – che contemplandosi vecchie e inadatte serbano nel cuore il terrore di vedersi spodestare e smascherare nella loro inadeguatezza. Come quando a scuola da bambini si preferisce il “dramma del dettato” a scapito della libera frequentazione dello slancio costruttivo.
In un’epoca nella quale il culto dell’immagine e la conservazione della specie stanno diventando gli ultimi capisaldi che accomunano la maggioranza delle persone, impensierisce che non ci s’accorga pure di una bulimia di pensiero, di un’anoressia di immaginazione, di un sovrappeso di senso comune che sta sformando i presupposti di ciò che rende una persona dignitosa. Il corpo si deforma facilmente per un uso scorretto del cibo che a tutto giova fuorchè allo stare in forma; l’animo umano – la scatola nera della nostra personalità – perde i suoi lineamenti grazie anche ad una informazione che a tutto concorre fuorchè al tenere “in-forma” il pensiero e l’agire dell’uomo. Perchè un pensiero distorto o una mistificazione della realtà a lungo andare concorrono ad instillare nel soggetto umano la convinzione che l’impegno personale è in definitiva inutile, perchè le cose umane hanno oltrepassato la dimensione della sopportazione. E la creatività del pensiero cede il posto ad una rassegnazione di fronte al potere e al compromesso, siglando la vittoria di coloro che puntando sulla distrazione culturale stanno compiendo un’opera capillare di distruzione mentale.
Il buon Novalis diceva che le ipotesi sono come delle reti: tu le getti e qualcosa prima o poi ci trovi. Ma le ipotesi dicono già una libertà di pensiero e di esposizione intellettuale: prima di loro viene l’uso di quella parola che si auspica torni di proprietà della collettività. Non perchè tutti divengano artisti della parola, ma per non vivere in un mondo in cui qualcuno sia ancora tenuto in perfetta schiavitù per mancanza di espressione: una diavoleria postmoderna.
(“Don Pozza: oratori spazi di vita”, di Lucia Bellaspiga, Avvenire, 10 luglio 2010)
“Il 6 giugno 2004 ho realizzato il grande sogno della mia vita: sacerdote di Cristo. la mia testa è un laboratorio di idee, ma non contano nulla se slegate dalla mia identità: giovane prete innamorato di Dio…” Inizia così la più originale tra le idee di don marco Pozza, 29 anni, ovvero la parrocchia virtuale “www.sullastradadiemmaus.it, che raccoglie centinaia di ragazzi. Da sempre si batte dalla parte dell’infanzia, e no nci sta al clima da caccia alle streghe: “Se da un lato è esecrabile che taluni ministri di Dio abbiano abusato dell’innocenza, è altrettanto esecrabile attribuire a tutti le colpe di pochi”. Il clima di denuncia, comunque, non lo spaventa: “Amo l’oratorio a cielo aperto così come l’oratorio virtuale, gli spazi d’aggregazione dove non c’è nmulla da nascondere ma tutto da guadagnare, sopratutto il sorriso dei piccoli. Al prete che s’affatica con la sua trasparenza e onestà, tale clima è solo di aiuto per cogliere ancor più quanto sia delicata la sua missione”. E spesso controcorrente, “perchè essere prete vero significa non brillare nella società”, ma ne vale la pena se “la speranza è di riaccendere il sorriso sui volti dei piccoli che Dio ha messo sulla nostra strada. Per farci ammaestrare dalla loro innocenza”.