Il deserto è l’immagine che ci accoglie, col suo fascino intrigante ed inospitale, ad ogni nuova Quaresima. Non è sicuramente un caso. Di fronte al deserto, non è più possibile indossare le maschere della convenienza, di cui abitualmente ci facciamo scudo al lavoro, in famiglia, persino tra amici. Il deserto ti spoglia, rivestendoti dell’essenziale. Di quell’essenziale che,abitualmente, rischia di rimanere soffocato sotto gli strati del perbenismo e della correttezza formale, fino ad arrivare a credere che esso non esista o non sia raggiungibile.
Il deserto ci parla, col suo silenzio denso di suoni attutiti, ricco di movimenti appena accennati, sotto i raggi d’un sole che abbrustolisce la pelle, ma schiarisce i pensieri.
«Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati. Mi cercano ogni giorno, bramano di conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; mi chiedono giudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio: “Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai?”. Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi» (Isaia 58, 1-4a)
La lettura profetica, come spesso accade, mette a nudo la nostra ipocrisia, invitandoci a non fraintendere la penitenza come un alibi per escluderci dalla vita di chi ci sta di fianco. A volte, infatti, paradossalmente, la fede stessa può diventare un modo per fuggire dalle nostre responsabilità, riducendoci a mero involucro, privo del suo vero e denso contenuto. Il brano liturgico s’interrompe di fronte alla denuncia del dato di fatto: è in atto un digiuno ingannevole, congegnato unicamente per mettersi in mostra davanti a Dio (illudendo se stessi, nella convinzione che Egli non sia in grado di guardare in profondità) e davanti agli uomini (nel tentativo di ottenerne l’approvazione). Per comprenderne meglio il contesto, può forse essere utile continuare la lettura di qualche versetto, così da leggere la versione positiva del commento antistante:
«Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?
Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?» (Is 58,6-7)
La Pasqua celebra, per gli Ebrei, la liberazione dal giogo della schiavitù d’Egitto. L’Esodo non ha rappresentato solo un miglioramento delle loro condizioni di vita, ma ha significato un pellegrinaggio lungo 40 anni (di cui i 40 giorni quaresimali sono immagine la e riflesso), nel quale non sono mancati gli episodi di scoraggiamento ed insoddisfazione. La libertà non è mai scontata: è una conquista complessa, che necessita di passare attraverso l’unificazione del nostro essere, così da coltivare, per noi stessi e per gli altri (a partire dai più vicini alla nostra quotidianità) libertà, cura ed attenzione.
Come Israele attraversa il deserto e le sue costrizioni, per ritrovare la vera libertà, anche il Figlio dell’Uomo, sospinto dallo Spirito, si trova ad affrontare il deserto, con le sue seduzioni, portate dal vento, dal silenzio, ma, soprattutto, dai pensieri che affollano la nostra anima e che, a volte, come una scrivania d’adolescente, necessitano di essere riordinati.
Quali tentazioni possono esserci mai nel deserto, dove non c’è nulla? Eppure, proprio in quel luogo, Cristo si trova ad affrontare l’Oppositore. Il pane, l’acclamazione della folla, il possesso sulle cose. È vero: a prima vista, sembrano tentazioni “ad hoc”, per mettere alla prova la messianicità di Gesù secondo la volontà del Padre. Ma, in fondo, la radice è la stessa delle nostre tentazioni. Sfamarsi è forse sbagliato? Cercare l’approvazione è forse sbagliato? Avere dei beni è forse sbagliato? Tutto ciò viene dal demonio? La realtà è che non sono le cose, in una deriva manichea, ad essere manichee. È piuttosto il rapporto che noi abbiamo con esse a poterci allontanare. Talvolta, affascinati da una falsa idea di libertà, ci illudiamo che certe scelte ci rendano più liberi. Invece, non facciamo che aggrovigliare ancora di più i lacci della nostra schiavitù. Ci vergogniamo di inginocchiarci a Dio, ma, spesso, siamo già proni di fronte al Principe di questo mondo…la parte più difficile, rispetto alla volontà di Dio, spesso, non è fare ciò che Lui vuole. Ma accettare di non fare e lasciare spazio perché Lui agisca: troppo pieni di noi, rischiamo di non lasciarci riempire da Lui.
«Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili invece sono eterne» (2Cor 4,17) : è questo l’augurio che, tramite l’Apostolo. Ci sono pensieri che vorremmo allontanare. Come quello della morte. Nell’illusione che, non pensandoci, potremmo – forse – vivere per sempre. Invece, la morte ci mette di fronte alla paura più grande davvero: il timore di non aver saputo vivere. Perché, se non troviamo senso all’esistenza di ogni giorno, è difficile anche trovare il coraggio e la forza di lottare. Senza il deserto, rischiamo di riempire troppo di noi stessi il nostro orizzonte, rendendo più difficile scorgere la volontà di bene che Dio ha su di noi.
Che il “passaggio attraverso il deserto” ci aiuti a riscoprire il gusto della nostra vita!
(rif: Letture ambrosiane della I Domenica di Quaresima, Anno B)
Fonte immagine: earthtrekkers