La loro genialità – che altro non è se non il sinonimo più casto della santità – fu quella d’intravedere delle braci di fuoco sotto una spessa coltre di cenere. E, forti dell’estrosità ch’era loro connaturata, seppero mostrarsi artisti proprio nel momento in cui sembrava non esserci più posto per l’arte e tutta la sublimità del suo casato: la passione e l’ardire, il coraggio e la fedeltà, l’intuizione e la volontà. D’altronde anche, e sopratutto, la storia Sacra svela il vero problema di certuni uomini e donne: non esistono venti sfavorevoli, bensì uomini e donne che si arrendono troppo facilmente. Che di fronte alla presenza della cenere non sanno più accendere lo sguardo d’intrigo che permetta loro di scorgere la presenza di qualche brace sotto, appena sotto il grigiore. Anche di una sola brace nascosta sotto quell’apparente morte del fuoco.
Oggi, a distanza di decenni – che non significa “in ritardo” bensì “con serietà d’intenti”, rifuggendo i facili entusiasmi – la Chiesa li dichiara santi: gente, cioè, che con gli uomini ha condiviso la quotidianità e con Dio ha scommesso sulla possibilità d’essere uomini diversi, intravedendo nel cristianesimo prima di tutto una forma più alta di umanizzazione. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono oggi il volto discreto e convincente della tenerezza evangelica: quell’umile e amabile presenza che addita e invoglia, che incentiva e incoraggia, che sferza e rinvigorisce i passi fiacchi dei viandanti. La Chiesa che essi guidarono era forse una Chiesa che faticava ad essere compresa: parole antiche che non parlavano più, celebrazione desuete e incapaci d’incuriosire gli animi credenti, forme di pietà e di carità che non trafiggevano più l’immaginazione della gente. Con l’afflato dei visionari – dei visionari di Dio, ndr – non temettero d’arrischiare nel cuore della gente quel senso di paura che, una volta vinta, si mostra come il preludio della primavera: aprirono la finestra della Chiesa e fecero entrare un’aria nuova. Più fresca, rigenerante, meno appesantita d’incenso. Giovanni XXIII prese la Chiesa e la mandò in Concilio, nel gesto più intrigante degli innamorati: essa, la sua Sposa, entrò vestita da Maestra e dopo tre anni d’attenta e meticolosa cura (e non fu una banale opera di maquillage come taluni ancora s’intestardiscono a credere) ne uscì con i lineamenti di una madre sorprendente. L’attribuiscono a Giovanni XXIII quella frase che oggi suona come un compendio del suo pontificato e della sua santità: «Non siamo al mondo per custodire un museo, ma per coltivare un giardino fiorito». I cristiani come dei giardinieri, non dei portinai.
Quel giardino ch’è stato poi il vero cuore di Giovanni Paolo II: con l’orecchio al cuore di Dio e la mano al ritmo del mondo, seppe andare incontro all’uomo laddove esso si trovava. Nel più recondito gesto del Natale cristiano: Dio si fece uomo per realizzare il suo sogno, ch’è rimasto quello d’andare incontro all’uomo. Senza sconti, col prezzo dell’amore addosso e la follia dei cantori, ruppe le frontiere e sgretolò i muri per costruire i ponti d’ingresso a quel giardino. Come chi accende le stufe per scaldare, rimosse la brace e mostrò al mondo che il fuoco poteva ancora ripartire: più forte, più ardente, più fuoco. Del Concilio ne tradusse la novità, ne sciolse il sospetto, ne celebrò la vicinanza di Dio: il tutto per narrare all’uomo l’avvincente storia di un Dio non più lontano ma così familiarmente vicino d’essere desideroso di sentirsi chiamare “Papà”.
Santi. In coppia, stavolta. Santi per aver avuto l’ardire d’aprire la finestra e far sentire aria pulita, salutare, cristallina. Ancor più, però, per aver dato l’impressione di non possedere Dio ma di cercarlo in compagnia degli uomini e delle donne di quaggiù. Ch’era poi il sogno del Cielo, l’ardire della santità.
(da L’Altopiano, 26 aprile 2014)