Un fiore di crisantemo e un tubetto di mascara: il primo come gesto di tenerezza da porre sulle tombe dei defunti, il secondo come maquillage per abbellire gli occhi e, forse, pure lo sguardo. Eppure quando suonerà la campana, qualcuno si ricorderà pure che anche i fisici più belli e gli sguardi più intriganti un giorno s’affacceranno al cospetto di colei che frate Francesco chiamava “sora morte corporale”. All’ombra dei cipressi la liturgia canta il riposo eterno per i suoi defunti, alla luce delle telecamere la società estende e pubblicizza il suo invito suadente: “video, dunque sono”. Nei cimiteri ci si riposa nell’attesa della Risurrezione, nei laboratori di bellezza ci si trucca per dimenticare il giorno della morte: la più imbelle tra le mostruosità che hanno come protagonista e firmatario l’uomo oramai abituato a nascondere nella cura del corpo la certezza di vivere in una provvisorietà permanente.
Il suono lento delle campane e i fiori sulle tombe – due gesti che si ripropongono al sorgere di ogni novembre – sono l’ammonimento elegante di una contraddizione che abita la nostra modernità: mentre da una parte aumenta la cura e la preoccupazione per la nostra corporeità, dall’altra nessuno tra coloro che si ergono a maestri spende una parola per spiegare quale sarà un giorno la fine di quei corpi che oggi sono belli, vincenti e affascinanti. L’esasperata cura dei lineamenti rinvia al domani e al dopodomani la riflessione sulla sofferenza, sulla morte, sulla solitudine nella quale un giorno tutti, belli e brutti, saremo destinati ad incontrare. E a presentare non solo lo stato di salute del nostro corpo ma anche la situazione della nostra anima, ovvero di quella zona interiore nella quale nè il mascara allungante nè quello infoltente riescono a nascondere le tracce di una desolazione nascosta nelle profondità. E’ questa la zona in cui potrebbero ergersi come maestri quegli anziani spesso e volentieri relegati nelle loro cittadelle di riposo, laddove avvicinandosi l’ora della partenza del corpo si realizza pure la partenza delle anime magari legate da qualche vincolo di parentela. Eppure ognuno di noi sperimenta sin da giovane il colore e il grigiore, la salute e la malattia, la grazia e il disonore, la vita nelle sue mille sfaccettature. Quasi una pedagogia che la vita pazientemente ci fa incrociare nel nostro cammino per allenare il pensiero e rafforzare le aspirazioni con le quali tentiamo di innalzare la nostra esistenza.
C’è stato un giorno in cui l’uomo guardava indietro per imparare e, vivendo il presente, teneva lo sguardo volto verso il futuro per allenarsi alla speranza. Oggi l’intelligenza, apparentemente più sopraffine, sembra essere vittima di una mutilazione: del passato non importa più a nessuno, del futuro meglio cercare di parlarne il meno possibile per evitare l’ansia dell’inedito e dell’improvviso che potrebbe cogliere. Rimane il presente, quel drammatico presente che orfano del passato e senza certezza alcuna del futuro diventa sempre più faticoso da sopportare. Il crisantemo sulla tomba ci ricorda che noi non siamo Dio: che la terra avanzerà anche dopo di noi, senza di noi, dimenticando forse pure noi. Rimarrà solo il ricordo e le tracce di coloro che, ben piantati nel loro intimo, avranno saputo costruire il futuro lavorando nel presente e facendo tesoro della memoria del passato.
Un tubetto di mascara non toglie la paura della morte: semplicemente la copre. Un crisantemo sulla tomba non toglie la fatica della morte: ma è quanto basta per ricordarci che l’incontro con sorella morte si compirà “al naturale”, senza trucco alcuno. Perchè lì la bellezza che conta sarà solo quella dell’anima.