vitruvio
Era da tantissimo tempo che non succedeva qualcosa di drammatico che coinvolgesse l’umanità intera. Per la mia generazione, è stata la guerra di nervi più feroce: siam stati costretti ad un movimento di torsione che, inevitabilmente, ci ha fatto scricchiolare tutte le ossa. Qualcuno, adesso, inizia ad ammetterselo: “Viaggiavamo tutti molto veloci, qualcosa ci doveva pure accadere!” L’accaduto, però, ci ha colti di sorpresa: arginare una guerra eravamo pronti, la corsa agli armamenti è sempre stata aggiornata. Poi, immersi fino al collo in questo virus dannato, abbiamo toccato con mano che, per morire, bastava non lavarsi le mani: e tutto è diventato dannatamente più complicato, sottile, impercettibile. Abbiamo toccato, sulla nostra pelle, come il gesto di uno possa influenzare una comunità intera. Siamo tutti connessi l’uno all’altro, il mondo è una connessione infinita di corpi, cuori, pensieri. Di benedizioni, maledizioni e intercessioni.
Fino a Natale, il corpo – quella carne alla quale siamo così affezionati – era lo strumento cardine della nostra vita: allenato e truccato. Dopo aver visto corpi isolati, putridi, sepolti, anche il corpo è diventato un timore. È il pericolo numero uno della società, a dar retta agli esperti: da veicolo di condivisione a strumento di contagio comunitario. Praticamente, ci è stato fatto divieto di usare il nostro corpo! Così facendo, sentiamo d’avere perso il linguaggio che ha reso il mondo più umano: “Ti abbraccerei anche se tu fossi un cactus e io un palloncino” hanno scritto su un bigliettino appeso al portone di una casa del centro. Quanto struggimento, in quel cactus abbracciato al palloncino! Il fatto è che la tecnica ci ha permesso di ovviare a migliaia di situazioni, ma ci ha chiesto come riscatto l’uso limitato del nostro corpo. È stato – lo sarà ancora per chissà quanto – un tempo “senza corpo”: scuola davanti al pc, messa senza il popolo, colazione da soli a casa, mancanza di un abbraccio fatto a modo. “È stata una comodità, la tecnologia!” sosterrà qualcuno. Certamente che lo è stata, ma il prezzo lasciato sulla tastiera è stato altissimo: l’impossibilità di avere una mano da stringere, un corpo da abbracciare, un viso da accarezzare. D’una democrazia da esercitare: l’istituzione – statale, ecclesiale – ha potuto governare a furia di decreti, senza il coinvolgimento fisico del contraddittorio. È troppo facile governare con la paura, senza la partecipazione diretta di un corpo-a-corpo ch’è la democrazia prima.
Qualcuno si sarà pure abituato, a patto che si possa vivere come angeli, senza un corpo col quale fare i conti. Fatto sta che pure Dio si è scelto un corpo quaggiù in terra, per farsi uomo: il sospetto è che non sia un inutile fardello, sostituibile al bisogno. Stiamo ripartendo con un corpo di troppo: fossimo angeli, il virus manco ci avrebbe colpiti, visto che, come il male, ha bisogno di un corpo per fare il bullo. Per il corpo, la parrocchia quest’estate non sembrerà nemmeno una parrocchia: senza il vociare del grest, i campiscuola in montagna, le gite al mare. Come la scuola non è più stata scuola senza la classe, la partitella nella ricreazione, il pullman. Benedetto, maledetto corpo: quante cose celate in quel pugno di carne che siamo stati abituati a portarci cucita addosso. Vivendo con l’uso del corpo limitato è tutto un po’ più semplice, ma una vita senza corpo non è manco vita. “È senza corpo!” diciamo di qualcuno che ci appare senza polpa.

(da Il Mattino di Padova, 31 maggio 2020)

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Dal 3 giugno in tutte le librerie I gabbiani e la rondine (Rizzoli), il nuovo libro di Marco Pozza

La sofferenza, la rinascita, la bellezza nella Via Crucis che ha commosso il mondo.
Roma, 10 aprile 2020, Venerdì Santo. Nel pieno della pandemia, la Via Crucis celebrata dal Papa non si svolge in mezzo alla folla, nel Colosseo, ma nella piazza San Pietro deserta, sotto lo sguardo dell’antico crocifisso della chiesa di San Marcello al Corso. Le parole che risuonano nella notte della morte e del dolore provengono dalla parrocchia del carcere di Padova: a meditare sulle quattordici stazioni della Passione di Cristo è un’intera comunità di uomini e donne che abita e lavora in questo mondo ristretto. “Mi sono commosso” ha scritto Papa Francesco. “Mi sono sentito molto partecipe di questa storia, mi sono sentito fratello di chi ha sbagliato e di chi accetta di mettersi accanto a loro per riprendere la risalita della scarpata.” In questo libro, partendo dalle meditazioni sulla Via Crucis raccolte e scritte insieme alla giornalista e volontaria Tatiana Mario, don Marco Pozza ha costruito un racconto sulla fede e la risurrezione dei viventi: la Via Crucis di Gesù diventa così una Via Lucis degli uomini, la cui sofferenza è stata riscattata da Cristo in persona. “Mai celebrata una Via Crucis così” scrive l’autore. “Pareva davvero d’attraversare l’Odio desiderando l’Amore.”
(Per prenotarlo clicca qui)

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