Parole in agguato: così si potrebbero descrivere le parole che sovente papa Francesco usa per dare una forma ai suoi contenuti. In agguato: che disorientano, imbarazzano e acchiappano. Che tendono un’imboscata alla tranquilla monotonia di un certo parlare cristiano. Un papa che – fiero di tenere cucito addosso l’odore delle pecore – non teme di rischiare l’incomprensione, e forse anche l’ironia, pur di far percepire appieno il felice realismo del fatto cristiano. Il papa e le mucche, per parlare dell’anoscia dei cristiani: «Quando uno si brucia con il latte bollente, dopo, quando vede la mucca, piange». Il papa e i pipistrelli, per tratteggiare la paura della vicinanza di Gesù: «Ci sono cristiani pipistrelli che preferiscono le ombre alla luce della presenza del Signore». Il papa e i conigli, per dipingere l’essere madre e padre alla luce del Risorto: «Alcuni credono che i cristiani debbono fare come i conigli». Mucche, pipistrelli e conigli, nella più perfetta fedeltà evangelica dove il Rabbì di Nazareth parlava di pecore, serpenti e colombe per cercare di dare un volto al Mistero che andava accendendo e testimoniando lungo le strade di Palestina.
Francesco mostra di conoscere la fragilità di un’immagine: arrestarsi ad essa può voler dire non comprenderne la profondità, farle significare l’esatto contrario, vestirla di vestiti che non le sono propri. Pur conoscendone, però, l’alto indice di fragilità, coscientemente s’arrischia di farci salire sopra il suo annuncio del Vangelo per l’uomo d’oggi. E’ un papa maestro di comunicazione: oggi che non esiste più un sapere che attecchisca nel senso più botanico del termine ma solo un passaggio di informazioni che transitano in quantità esorbitante, Francesco sceglie di abitare lo shock dell’immagine: per colpire, per sorprendere, per arrestare quel fluire monotono di dati, numeri e pensieri del quale è zeppo il comunicare degli uomini. Per fronteggiare un’informazione che viaggia semplicemente alla superficie delle cose – dove non si organizzano pensieri ma, semplicemente, si gestiscono delle informazioni –, Francesco scaglia addosso il potere dell’immagine: con la sua eco, con la sua profondità, con i suoi riverberi. In un pensiero cristiano sempre più barricato dietro una teologia incomprensibile e scortata dai dogmi, il papa disarma con la semplicità del suo linguaggio portando tutti, ancora una volta, alla frontiera del possibile. Al cuore della questione. Per lui, figlio della Compagnia di Gesù, l’importante non è possedere un territorio ma accendere dei processi: quale strumento, meglio di un’immagine, riesce a scompigliare per rinfrescare?
Immagini d’intrigo, però. Quindi di difficile comprensione, a seconda della volontà di scandagliare Dio e i suoi misteri. Ad una prima lettura, divertono: il Papa dei conigli e dei calci nel sedere, dei pugni e dei pipistrelli, delle mucche e dell’amido. E’ il più banale dei livelli di lettura, quello che ai più basta per farsi il solletico. Appena sotto la scorza, però, l’immagine s’ingigantisce: è come gettare un sasso in un lago di montagna. Risveglia l’acqua e produce cerchi concentrici. Immagini che, svegliando, accendono e riannodano le vecchie memorie. Ad un terzo livello, poi, c’è spazio per la conversione stessa: è la dimensione spirituale delle immagini. Non contano più le immagini ma il significato alle quali esse rimandano, l’intreccio delle relazioni alle quali esse accennano, la prospettiva alla quale additano.
Fermarsi al coniglio è voler fare di un papa un burlone a tutti i costi. Sposare ciò al quale l’immagine del coniglio addita – una paternità responsabile – è afferrare la serietà di Francesco. Che, sull’esempio del Nazareno, al linguaggio dei rabbini preferisce quello dei bambini. Per non ingannare la gente.
(da Il Mattino di Padova, 25 gennaio 2015)