compressoreCome un replay di “Arancia meccanica”, il film diretto da Stanley Kubrick nel 1971. Con uno stile tra la fantascienza e la sociologia, il film diede forma e voce ad una società destinata ad un’esasperata violenza giovanile. Da qui il titolo che, tradotto dall’inglese, potrebbe suonare così: «strano come un’arancia ad orologeria»: un’espressione anglosassone per tratteggiare tutto ciò che apparentemente è normale ma interiormente è bizzarro. Dal film alla realtà il passo è breve, verrebbe quasi da dire che la realtà in questo caso superi la fantascienza. L’accaduto ha trovato forma a Napoli stavolta: ma potrebbe essere capitato o capitare anche dentro il più normale dei quartieri di una cittadina del Nord-Est, tant’è banale la trama.

Tre ragazzi di 24, 25 e 30 anni – più che ragazzi, dunque, sono persone adulte – si scagliano contro un ragazzino di 14 anni, dichiarandolo colpevole d’essere grasso. Giacché se sei grasso sei fuori dai canoni della media: dunque noi, uomini arrivati per ristabilire una normalità infranta, decidiamo di intervenire con una punizione esemplare. L’accaduto è tragicomico: con il tubo di un compressore d’aria gli gonfiano l’intestino. D’altronde non è volontà d’uccidere, ma semplicemente una strategia per vincere la noia del quotidiano. Se poi scappa il morto, a questo non si voleva arrivare. E’ questa la giustificazione dei genitori che lascia ancor più interdetti delle gesta dei figli: “mio figlio è un bravo ragazzo, è stato solo uno scherzo” ha osato ribattere una delle madri chiamate in causa. E’ tutto così semplice, lineare: uno scherzo finito male. Punto e a capo.
Come se passare otto ore in sala operatoria a ricomporre l’intestino gonfiato a dismisura si possa annoverare tra quelle conseguenze anche accettabili – senza tante tragicità – pur di non far mancare l’appuntamento con il divertimento ai propri figli. Certe semplificazioni fanno rabbrividire più delle gesta compiute: la “bravata” è una categoria tirata in campo per nascondere dell’altro, per mettere a tacere quell’analfabetismo delle emozioni che può condurre l’uomo sul ciglio di una banalità che diviene morte. Che, a ben guardare, risulta essere ancor più pericolosa della cattiveria stessa. La filosofa e giornalista ebrea Hannah Arendt – narrando il processo che vide imputato e condannato a morte Adolf Eichmann, l’architetto dell’Olocausto – intitolò il suo libro “La banalità del male” e si guardò bene dal dipingere Eichmann come un mostro: «Di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici bensì erano, e sono tutt’ora, terribilmente normali. Questa normalità è più spaventosa di tutte le altre atrocità messe assieme». Per poi concludere il suo viaggio tra le pieghe del cuore di quell’uomo con la celebre definizione che suona oggi di un’attualità preoccupante: «La lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male».
A Gerusalemme con il caso Eichmann, a Napoli nelle gesta di tre uomini annoiati, dentro le strade di una città qualunque in preda ad una noia mortale: il male non è mai cattivo, è rivestito di una normalità così assordante da tradursi in banalità. Ed è questo a rendere più drammatica la storia: che quella banalità dilaghi oltre le gesta compiute, dentro alle radici di una storia familiare che trova l’ardire di chiamare “scherzo” un quasi “omicidio volontario”. Più che di bullismo, dunque, possiamo proprio parlare di atrocità: essere grasso non può essere cagione di morte per nessuno. Come il fatto di nascere in periferia non è sempre sinonimo d’essere abituati al dileggio. Penalizzare la bravata è dire che quello è un reato: non cambia la sostanza del gesto, ma aiuterebbe forse ad aprire loro gli occhi. Per poi aiutare i loro genitori a fare altrettanto.

(da Il Mattino di Padova, 12 ottobre 2014)

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