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La giusta distanza aiuta a mettere a fuoco le parole quanto le persone. Non puoi lasciarti guidare dal “sentito dire” – Dio non giudica per sentito dire – devi trovare quel coraggio che hai per avvicinarti, fare un passo avanti, due indietro oppure tre di lato, riconoscendo il punto esatto dentro te stessa dove sostare in silenzio. In attesa che l’animo si sintonizzi, la testa annulli il tempo scandito dall’orologio.
Altrimenti lascia perdere. Non fa per te. È questo che mi chiede il carcere tutte le volte che infilo al collo il pass, spingo la prima pesantissima porta blindata e percorro quel corridoio infinito che mi porterà in parrocchia. In quei pochi minuti ho una grande occasione: dire una preghiera, un’Ave Maria, alleggerirmi per un po’ da tutto ciò che c’è fuori, spogliarmi dei pensieri, diventare  semplicemente una creatura in ascolto.
Anche domenica scorsa il prodigio si è realizzato. Mentre davanti a me lasciavo scorrere  le oltre centoventi persone entrate al Due Palazzi per la Domenica galeotta, la prima di quest’anno, sono rimasta indietro, per ultima e di proposito. Volevo osservare i volti di quel breve pellegrinaggio, catturare gli sguardi che cercavano un brandello di azzurro oltre le sbarre alle finestre. Perché, quantomeno, almeno una piccola sensazione di prigionia la provi comunque, sebbene tu sia certo che da lì a qualche ora uscirai tornando tra le calde mura di casa tua.
Ad attenderci con il cuore in gola c’erano otto persone detenute, emozionate, tese fino alla commozione, insieme alle loro storie di errori e dannazione, ma che oggi stanno affrontando la più difficile delle partite. Hanno scelto di voltare le spalle al male e rinascere in un’altra direzione, verso quella del Bene che inizia a spandersi come profumo, dà un senso nuovo alle lunghe giornate in cella, rende finalmente degna di essere vissuta quell’esistenza frantumata e tutta da rimettere in piedi. Hanno i volti dei nostri mariti, dei nostri padri, dei nostri fratelli, dei nostri figli questi uomini tra le sbarre. Pare incredibile, ma è così. E, come loro, sorridono, sperano, faticano, soffrono, amano.
Nella sua catechesi sulle beatitudini di queste settimane, parlando della consolazione di coloro che vivono nel dolore, Papa Francesco ha detto: «Si tratta di voler bene all’altro in maniera tale da vincolarci a lui o a lei fino a condividere il suo dolore. Ci sono persone che restano distanti, un passo indietro; invece è importante che gli altri facciano breccia nel nostro cuore». Ed è proprio questo che è accaduto domenica scorsa: la breccia è stata aperta con un esercizio improvviso di misericordia a cui nessuno credo sia riuscito a sottrarsi.
Di fronte a chi convive con la propria colpa ogni giorno e fa di tutto per ricostruire ciò che resta, per non provocare più sofferenza a sé  e agli altri, a madri, padri, figli innocenti, mi ritrovo ogni volta simile nel mio tentativo di cambiare, andando oltre alle mie banali quotidiane debolezze. Lì, tra sbarre e cemento, la giusta distanza, che allontana dal giudizio e ci fa riconoscere figli dello stesso Padre, è una e soltanto una: quella del cuore.

Tatiana Mario
volontaria della parrocchia del carcere di Padova

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(photo@TranquilloCortiana)

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