balconeLo chiamano “fenomeno del balconing“: d’altronde certe fesserie vanno rese con un inglese che almeno cerchi di nascondere il termine italiano che ci sta sotto. Solo in quest’estate, nel bellissimo paradiso delle Isole Baleari, sei morti. L’ultimo, la settimana scorsa, un ragazzo italiano. In che cosa consiste questo ennesimo tentativo di salire agli onori della cronaca? Semplice a dirlo: consiste nel cercare il suicidio. Siamo corretti professionalmente: consiste nel cercare in tutti i modi di morire sotto lo sguardo di una telecamera che ne immortali le gesta e ne tramandi la follia. Perchè di follia si tratta: salire sul balcone di un albergo (meglio se posizionato nei piani alti) e gettarsi nel vuoto cercando di mirare la superficie della piscina sottostante. Che il più delle volte c’è: ma chi ne tenta l’abbraccio non c’è con la testa. Certo: perchè questo sport prevede uno stranissimo allenamento pre-gara. Si tratta di abusare di alcolici e di droghe varie, di far in modo che la testa diventi un qualcosa di rocambolesco, cercare di spegnere il lume della ragione per poi non essere coscienti quando ci si lancia. Per qualcuno che ci riesce – con un colpo di fortuna degno del miglior Enalotto – altri ce ne rimettono la pelle: lasciando dubbi e quesiti a chi poi ha l’arduo compito di sopravvivere dopo una simile tragedia.
Storie per lo più giovani e scanzonate, come quelle che d’estate se ne vanno – col beneplacito consenziente dei genitori – a strafarsi di pasticche e di alcol in quei moderni campi di sterminio gemellati con Auschwitz. Eppure i loro nomi sono noti a tutti, e declinati il più delle volte con appassionata magia: Mikonos, Lloret de Mar, Ibiza, Formentera, San Andrès, Ios. Chi ancora torna – come la ragazza che l’altro giorno ha scritto una lettera aperta al Corriere – assicura che non c’è tempo per mangiare. E neppure per andare in spiaggia: solo disco, pub, alcol a poco prezzo e gente fradicia che vomita. Con la scoperta d’essere tornati con nessun amico in più. La storia ha pianto i deportati nei gulag, nei campi di sterminio, nelle moderne carneficine dell’Est: ma quelli non scelsero di conficcarsi negli anfratti di quegli inferni costellati di cadaveri, tranelli e cremazioni. Oggi, invece, nei moderni campi di sterminio ci si va, magari finanziati e sponsorizzati da genitori ignari dell’ubicazione e della vita ivi pubblicizzata. Ma nessuna scusa regge tale infamia e noncuranza: se non la conoscono, sono colpevoli per non informarsi dove vanno a cacciarsi i loro figli. Se la conoscono e nonostante ciò li lasciano andare – strappando promesse da marinaio – sono doppiamente colpevoli: perchè sanno, tacciono e poi accusano il primo che passa di disinformazione.
Essere educatori oggi è una sfida gigantesca, una di quelle sfide che non annoiano mai chi in loro s’imbatte. Una sfida che porta anche all’impopolarità: perchè dire di no, impedire o semplicemente spostare destinazione significa complicarsi la vita, rodersi il fegato e costruire muri. Eppure qualcuno ci prova: come quella mamma che, avvisata e attenta, appena avuto il sentore che là correva il desiderio di sua figlia, le ha regalato un biglietto aereo per tre mesi di studio all’estero. Risultato: la figlia è tornata con un grazie sulle labbra. Per non aver perso tempo, per essere diventata cittadina del mondo, per aver evitato una settimana da sballo. Quella mamma ha sudato sette camicie e speso tre volte tanto: ma permetterà a sua figlia di divertirsi anche fra trent’anni.
Perchè certe idiozie hanno le ore contate e tutti lo sanno. E i balconi sono stati fatti per allargare lo sguardo: non per mostrare che lineamenti tiene la morte.
L’eterno riposo: a chi muore. Ma anche a chi finanzia la morte.

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