rosa

Il giorno in cui scomparve facendo rotta verso il Sud della Francia, tutti capirono ch’era morto ugualmente a com’era vissuto: abitando, fin quasi all’ossessione, il limite estremo del vivere: dei giardini, delle rose, dei pianeti. Dentro l’abitacolo del Lightning P38 F5B numero 223 – che avrebbe dovuto rincasare alle 12.30 dello stesso giorno – sedeva Antoine de Saint-Exupéry, lo scrittore-aviatore francese, pronto a compiere la sua nona missione in zona bellica. Non fece più ritorno: «Se sarò ucciso, non rimpiangerò assolutamente niente. Il formicaio futuro mi spaventa. Odio la virtù da robot. Io ero fatto per essere giardiniere» – scrisse in uno degli ultimi appunti trovati giorni dopo la scomparsa nella sua stanza da letto. Le lenzuola erano ancora in ordine: la sua ultima notte fu notte di veglia, di appunti, di profezia. L’ultima, anche la prima.
Morire non è nulla se si conosce ciò per cui si muore, perchè vivere è appartenere: «Io ho bisogno di abitanti nel mio impero, non di campeggiatori che non provengono da nessun posto» scrive in Cittadella, l’unica opera pubblicata postuma, il nettare più squisito lasciato come eredità da uno scrittore la cui fortuna fu anche la sua sciagura: il suo piccolo principe è diventato così grande da oscurare il suo papà letterario. Poco gli importerebbe oggi, forse ne sarebbe felice, chissà: il suo cruccio era quello di vivere così a fondo da poter poi scrivere qualcosa, fosse un’annotazione come un rimbrotto, un’eco come un singhiozzo. Tutto, però, era per lui questione di ali e radici: mettere radici, avere radici, librarsi in volo. E’ questo che rende la tua rosa diversa da tutte le altre rose: a quattrocento metri di quota, perfettamente solo col suo motore, riusciva a dimenticare le miserie di una vita che lo teneva nell’incertezza. Solamente lassù, leggero fin quasi ad essere nudo, convinto com’era che un progettista intuisce d’aver toccato la perfezione non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere. E’ stato ostinatamente solo, Antoine: nei suoi voli come nelle sue storie amorose. Una solitudine che l’ha condotto ad alimentare all’inverosimile il concetto della casa: il luogo degli affetti, le memoria degli anni felici, quasi un memoriale per non farsi inghiottire dal buio. Una casa che è anzitutto un’epoca, quella dell’infanzia, «quel grande territorio da cui ognuno è uscito! Di dove sono? Sono della mia infanzia come di un paese» scrive in Pilota di guerra. Il campeggiatore non ha appartenenza alcuna, non conosce il cerimoniale dei luoghi che attraversa, nemmeno sa gustare le tradizioni di un paese: vi transita ma non pianta le radici, rimane zingaro. L’abitante, invece, di una terra e di un’epoca conosce tutto, sopratutto i riti del suo paese, necessari per scorgere sotto il disordine delle pietre il significato della casa: «Che cosa diventerai se nessuno ti prende per mano per mostrarti le provviste di miele, fatto non di cose ma del senso delle cose?»
Antoine de Saint-Exupéry non nascose mai di provare una certa serenità quando si sentiva assediato: da giovane, talvolta, il deserto gli era parso piatto e poco interessante sino a che qualcuno non gli aveva sparato. A quel punto il deserto era tornato ad essere bello, a fiorire. Un uomo che ritrovava se stesso quand’era in pericolo. Quasi un santo-laico, patrono dei giorni di inizio, quando le domande s’intasano tutte in un’unica domanda: “Come sarà quest’anno?” Domanda da campeggiatore, di quelle che manderebbero sulle furie il mistico Antoine. Per il quale l’unica domanda autorizzata è quella dell’abitante: “Come sarò quest’anno?” L’uomo di Saint-Exupéry non è di quelli che si possono aprire con domande vane, con parole scontate. E’ uomo d’imboscate: tant’è che ad essere minacciate sono sempre le cose più valide. Le anime più nobili.

(da Il Sussidiario, 2 gennaio 2016)

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