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Gulag. Un argomento spinoso per la storia della Russia del Novecento, tra detto, non detto e reinventato, tra censura e nuovi tentativi di comprensione. Il 5 settembre 1918 Il 5 settembre 1918 fu promulgato dal Consiglio dei commissari del popolo il decreto sul Terrore rosso, che prevedeva, oltre alle fucilazioni di massa, anche l’internamento nei campi di concentramento sovietici.
Il sistema, nato ufficialmente con Lenin, si rafforzò e sviluppò appieno sotto il regime stalinisti, mentre si ridusse dopo la morte di Stalin, avvenuta nel 1953,continuando, tuttavia a esistere fino al crollo dell’Unione Sovietica. Le stime (al ribasso, provenienti da uno studio del 1993 basato sui dati sovietici del periodo dal 1934 al 1953 – non esistono dati d’archivio dal 1919 al 1934 – ) parlano di una cifra che va da uno a circa 10 milioni di morti: Solženicyn (e altri) avanzano, forse più realisticamente, la cifra di sessanta milioni. I prigionieri del gulag non erano considerati “razza inferiore” o “subumani”, come qualcuno sosteneva rispetto a quelli dei lager nazisti: erano, per lo più, detenuti politici, “nemici del popolo”, uomini e donne scomodi, perché avevano il coraggio del pensiero e della parola, manifestavano (anche quando non lo organizzavano) il dissenso nei confronti del regime, intaccandone, così, l’unanimità del consenso: un pericolo immenso, per un regime che voleva essere “popolare”. Molti furono, ad esempio, i kulaki deportati perché si erano opposti alle statalizzazioni forzate dei loro terreni. Nonostante l’alta mortalità, causata dagli stenti e dalle rigide condizioni atmosferiche dei luoghi (molti erano ubicati in Siberia, o in zone impervie sugli Urali), non era la morte dei prigionieri il fine o l’obiettivo: l’obiettivo era la rieducazione culturale, la “conversione” ai dettami del regime, in ogni caso, quanto meno, l’esclusione dalla società del regime, cosicché il germe del dissenso non intaccasse la società sovietica; secondariamente, erano una risorsa economica, in quanto addetti a lavori forzati. L’ultimo aspetto, in verità, era prevalentemente disatteso, dal momento che la produttività era assolutamente scarsa e la stessa mancanza di un’alimentazione e di un riposo adeguati facevano sì che tali posti non abbiano mai  rappresentato una grande risorsa, da questo punto di vista.

Il popolo sovietico usava comunemente la parola “lagerjà” (plurale di “lager”) per riferirsi al sistema dei campi di lavoro, mentre la parola “Gulag” in realtà ne indicava l’amministrazione. È infatti l’abbreviazione di “Glavnoe Upravlenie LAGerej i mest zakljuchenija”: “Direzione generale dei campi e dei luoghi di detenzione”.
Tale parola prese piede, per indicare i campi di concentramento sovietici proprio grazie alla fortuna che ebbe il libro più famoso, quell’Arcipelago Gulag (1957), con cui Aleksandr Isaevič Solženicyn fece conoscere al mondo l’orrore che doveva rimanere nascosto.

Perché parlarne, qui, ora, in Europa, nel 2021? Forse un primo motivo, molto personale, sta nella mia preferenza accordata anni orsono ad uno scrittore come Fedor Michailovic Dostoevskij, che ha trascorso quattro anni  in un carcere siberiano e ha  parlato della sua esperienza nel libro Memorie da una casa di morti.
Nel Castello di Tobol’sk,  ex prigione costruita a metà Ottocento, chiusa nel 1989 ed ora divenuta museo, lo scrittore Fëdor Dostoevskij trascorse dieci giorni prima di essere trasferito al campo di prigionia di Omsk, dove scontò quattro anni di lavori forzati per essere membro di una società segreta ritenuta sovversiva. Questa prigione era famosa per le condizioni di vita dei carcerati, più dure rispetto a quelle dei campi di lavoro. Oggi le celle di isolamento del Castello sono state trasformate in un ostello per accogliere i visitatori e sono presenti anche l’archivio della città, un museo ed una biblioteca. Quando era in uso, il Castello aveva anche un ospedale dedicato ai prigionieri e una parte di uffici amministrativi. Il fotografo Alexander Aksakov ha realizzato un reportage che mostra la prigione come appare oggi, nel libro 365 . Il 23 aprile 1849, infatti, Fedor Dostoevskij veniva arrestato con l’accusa di essere membro di una società segreta tesa alla sovversione sociale e politica della Russia zarista. Che fosse o non fosse vero, forse non sarà mai possibile attestarlo. Certamente, Dostoevskij fu un intellettuale libero e svincolato dal regime, che ebbe il coraggio della libertà di pensiero, in un periodo in cui tale coraggio poteva costare la vita. Di questi anni, lo scrittore annota, con dolore, il ricordo nel libro precedentemente citato: «Fu una sofferenza indicibile, interminabile, perché ogni ora, ogni minuto pesava sulla mia anima come una pietra».

Non può, tuttavia, essere l’unico motivo che spinga me (o altri) a parlarne: chiunque ami la libertà, non può sopportare che chicchessia possa esserne privato, qualunque sia il motivo. Se I fratelli Karamazov sono stati, opportunamente, definiti “una sinfonia” dell’animo, perché in grado di raccogliere, quasi come un enciclopedico romanzo, i moti dell’animo umano e la storia contemporanea della Russia, legandoli con gli aneliti della filosofia, della cultura, della teologia e con le domande ataviche che l’uomo porta con sé. Altrettanto felice è, del resto, la definizione dell’episodio legato al grande inquisitore (il racconto pensato dal secondogenito Ivan, a cui sta stretta la definizione di materialista, e narrato ad Aleksej, il più piccolo dei tre fratelli, dallo spirito più ascetico) come un inno alla libertà. Ecco perché, ancora oggi, non è senza senso, né inattuale, parlare di gulag, oggi.
È significativo, infatti, il dialogo (o meglio: monologo, perché Gesù tace; l’unica reazione che opporrà sarà un bacio alle vecchie ed esangui labbra dell’inquisitore) che domina l’episodio e ci artiglia con un interrogativo sempre attuale, perché va ad interrogare la stessa natura umana: «Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso». Da una parte, l’inquisitore, che intende soggiogare la libertà dell’uomo, per condurlo al bene con la forza; dall’altra, la forza ardente, tenace, ma sempre rispettosa della libertà che Cristo gli oppone. Da un certo punto di vista, non possiamo che dare ragione all’inquisitore. È questo che pensiamo, di fronte al dramma del dolore innocente: Dio, perché non intervieni? Che, tradotto, equivale a dire: lo vedi che la libertà ci nuoce? Sovrastaci con la Tua forza, perché, da soli, di fronte alla libertà, l’egoismo ci vince. Ci sembrano proteste giuste e legittime, quelle contro il dolore innocente. Ci sembra che sia Dio ad essere in torto, se lascia che un innocente soffra. Questa mancanza di senso ci devasta.

Eppure è stato Cristo, l’Innocente, ad accettare di essere inchiodato sulla Croce, affinché noi uomini potessimo ricevere, nuovamente, fiducia, perché la scelta di amarLo e di amarci, avvenisse – sempre!- all’interno della grande sfida della libertà.


Fonti:

Cogitoetvolo
Cronologia.it
Epochtimes
Ilpost2016
Ilpost2020
Primabergamo
Smore
StoriaXXIsecolo
Studiomatematica

Fonte immagine: Best5

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