merla

Di tutte le leggende ascoltate quand’ero bambino a casa mia – quasi ogni sera mi addormentavo ascoltandone una diversa – ce n’è una alla quale sono affezionato particolarmente: quella che narra la vicenda dei merli. Un tempo, mi raccontava il nonno, i merli erano tutti di colore bianco. Un giorno è accaduto un fatto strano: una merla, di un bianco nitidissimo, volava coi piccoli per cercare riparo dal freddo. Esausta per il troppo volare, s’accorge del fumo di un camino: porta i suoi piccoli in quella calda dimora e così riesce a salvare la famiglia. Per colpa della fuliggine, i merli divennero tutti neri. Non fu un problema – mi disse il nonno -: come segno di ringraziamento accettarono quel mutamento di colore. I “giorni-della-merla” (29-31 gennaio) nascono da questa leggenda: sono i giorni più freddi dell’anno, sono anche i giorni nei quali è possibile capire quale sarà il clima dell’intero anno. In quinta elementare – l’ho ritrovato qualche mese fa – ho fatto un piccolo tema. Oggi, a distanza di tempo, il titolo di quel componimento è motivo di interesse: “I giorni della merla e i campi di concentramento”. Penso fosse un collegamento nato da un’associazione: la giornata della memoria (il 27 gennaio) che, come data, è molto vicina ai giorni più freddi dell’anno, quelli della merla per l’appunto. Quel piccolo tema lo concludevo con una frase: “Penso ai bambini morti nel campo di concentramento. Se un giorno mi dimenticherò di quello che è successo, patirò molto freddo. Freddo come quello di stamattina: la nonna mi ha fatto mettere il passamontagna per venire a scuola”.
Niente più che dei pensieri di un bambino delle elementari. Adesso che ci penso, però, ammetto d’essere stato fortunato: nella semplicità di quelle parole, avevo confessato cosa fosse per me la “memoria”. Fare-memoria non è come ripetere-a-memoria: costruire è sempre qualcosa di più che fotocopiare. Adesso non ricordo nitidamente ma, con molta probabilità, la mia maestra era riuscita a spiegare molto bene a noi bambini che significato avesse unire una data (quella che racconta della liberazione del campo di Auschwitz) con la parola “memoria”: giornata della memoria. Ciò che capii sui banchi di scuola, fu una conquista in umanità: la memoria di ciò che è stato ieri deve diventare contestazione di ciò che accade oggi, perché nel domani non si ripeta quello che è già accaduto. Abita qui la stranezza del 27 gennaio: un giorno intero per fare memoria di ciò che tutti vorremmo dimenticare al più presto. Che, invece, deve rimanere come fonte di giudizio. Un concetto così semplice che, da bambino qual ero, ho subito collegato con quello che mi raccontava il nonno dei merli: vedendo quanto sono capace di ricordare le gesta-più-fredde (“fatti agghiaccianti” li chiamiamo noi), posso capire come sarà la stagione della mia vita: «Tutti abbiamo bisogno della memoria. Tiene il lupo dell’insignificanza fuori dalla porta» (S. Bellow).
Il fare-memoria non è come appassionarsi all’amarcord. È questo, invece, che pare andare in onda oggi. La costruzione dei Cie (centri di identificazione ed espulsione), la clandestinità, l’isola di Lampedusa non sono più solo nomi comuni di fenomeni, nomi propri di terre: sono squarci quotidiani che mostrano come la memoria più difficile sia la memoria del presente. Quella che non s’accontenta di un viaggio-della-memoria (gesto nobile), della lettura di un brano di Primo Levi una volta all’anno, dell’ascolto della testimonianza di uno che è sopravvissuto all’inferno degli uomini. È tutto questo moltiplicato all’oggi, tradotto nella realtà quotidiana. È da come l’uomo usa la memoria della sua storia, la memoria del giorni-più-freddi, che si può ancora oggi intuire come sarà la stagione prossima dell’umanità. Perché i ricordi, a differenza delle ferite, non si possono rimarginare. Rimangono a disposizione di chi vorrà farne buon uso.

(da Il Mattino di Padova, 29 gennaio 2017)

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