Storia di un perdente, uscito dal tunnel. Stefano Pioli: nome e cognome poco noti nel mondo del calcio. Precedenti, sì, ma non sufficientemente roboanti per i palati dei tifosi. Sospettato, fin dal primo momento, di essere l’ennesima fregatura che la dirigenza rossonere avrebbe propinato ai suoi tifosi, ormai stanchi di vedere infangato il blasone centenario e i colori di una squadra (che fu) gloriosa e vincente.
Partito dalle retrovie; meglio: da una situazione alquanto imbarazzante (a due mesi dall’inizio del campionato, il Milan navigava in pessime acque, frequentando la seconda metà della classifica, in posti che, fossimo stati alla fine della stagione, avrebbe significato la lotta per non retrocedere), piano piano, con determinazione e pazienza, ha saputo prendere in mano la squadra, puntare sui giusti innesti e trovare il modo di far giocare a calcio quelli che, ad ottobre, sembravano un’armata Brancaleone, capitata per caso su un campo di calcio.
La realtà è che non c’erano e non ci sono campionissimi, non è il Real Madrid dei Galacticos. Ma anche ad un cieco è evidente la differenza. Ora, ci sono in campo 11 giocatori che giocano come una squadra vera, di Serie A: lottare per lo scudetto è, ovviamente, improponibile, ma, finalmente, si vede una squadra scendere in campo con continuità.
Qualche nome è necessario farlo. Sugli acquisti di gennaio, svetta il nome di Ibrahimovic: nonostante la stagionatura di incidere come vorrebbe, le dichiarazioni che diversi compagni hanno rilasciato in questi giorni, ne attestano il ruolo fondamentale, di leader e di motivatore. In una squadra molto giovane, che sta cercando di trovare se stessa, la serietà e la professionalità dimostrata dallo svedese in allenamento, così come la fame insaziabile di vittorie, nonostante i suoi 39 anni, hanno evidentemente rappresentato il pungolo di cui quegli scapestrati avevano bisogno per dare – finalmente – il massimo.
Nonostante fosse un acquisto di settembre, pare evidente che l’uomo che più abbia beneficiato della presenza del campione svedese sia Rebic, sia dal punto di vista tattico, sia dal punto di vista umano. L’eclettico croato (abituato a giocare sia come ala che come attaccante) sembrava infatti non essere riuscito ad inserirsi negli schemi di Giampaolo e, del resto, anche nelle prime partite con Pioli non aveva mostrato che un’ombra rispetto all’incisività, con cui si era evidenziata sia in Nazionale che nel campionato tedesco.
Un’altra menzione che si rivela doverosa, in un organico oggettivamente non irresistibile, ma che, lungo il corso della stagione ha imparato a trovare la propria forza nell’unità. Donnarumma è quel nome che, come spesso accade per i portieri, dai per scontato. Come i tecnici dello spettacolo: sai che hanno fatto un buon lavoro, se non ti accorgi di loro. Chi ha fatto il portiere almeno una volta, lo sa. Para l’impossibile: ti diranno che era solo il tuo dovere. Fai un errore, che ti costi un gol decisivo. Crocifisso senz’appello. Donnarumma ha 21 anni, ha da poco festeggiato le 200 partite col Milan, con cui ha debuttato a non ancora 17 anni e, per non farsi mancare nulla, contro l’Atalanta, investito per la prima volta della fascia di capitano, ha parato un rigore. Credo bastino queste pennellate a comprendere quanto sia stata determinante la sua presenza, per limitare i danni, in particolare in questa stagione, soprattutto, poi, quando, nel resto del campo, non si trovava nessun ingranaggio che girasse nel verso giusto.
Ma torniamo al nostro uomo, che ha da poco, non senza una certa sorpresa, rinnovato un contratto, pressoché impossibile da pensare anche solo qualche settimana fa ed ora quasi inevitabile. Perché i risultati non temono smentite. E perché i ragazzi sono compatti intorno a lui ed è facile immaginarlo che cambiarlo, ora, potrebbe solo peggiorare la situazione.
PADRE PIOli era diventato l’epiteto con cui canzonarlo, un po’ per l’effettiva somiglianza fisica, un po’ per quell’aplomb, quasi britannico, che lo accompagnava. Non una parola fuori posto, difficile vederlo eccedere nell’ira, persino in panchina durante le partite. I tifosi hanno avuto ben poca empatia nei suoi confronti. La dirigenza trattava una situazione a campionato ancora in corso, paventando persino una terza sostituzione. Pioli ha proseguito nel suo lavoro, senza entrare in polemica con la dirigenza, i tifosi oppure la stampa. Una flemma quasi irritante, che, tuttavia, era diventata, per lui, quasi un marchio identificativo.
Ebbene, forse quella flemma si è rivelata un ottimo paravento per nascondere determinazione e fortezza. Perché i risultati non mentono. E i risultati dicono che, contando solo la classifica del girone di ritorno, ad oggi, il Milan contenderebbe lo scudetto all’Atalanta. Ovviamente, questi sono numeri che lasciano il tempo che trovano e nessuno si sognerebbe di mettere in discussione la validità del girone d’andata; rimangono, tuttavia, preziosi per comprendere quali inversione ad U nel gioco, nei risultati, ma soprattutto nella mentalità (su tutte, da ricordare, infatti, come sia maturato il 4-2 sulla Juventus e, cioè, dopo due gol subiti che, ad ottobre o novembre, probabilmente sarebbero stati, invece, il preludio ad un cappotto da segnare sugli annali). L’inversione di tendenza di gennaio – febbraio ha visto il compimento nella striscia positiva della ripresa dopo il lockdown (che ha registrato 2 pareggi, 7 vittorie e un bello zero nella casella delle sconfitte) fa ben sperare che il cambiamento sia ormai ben innestato nel motore della squadra. Manca ancora qualche partita da disputare; una certezza, però, già c’è: il raggiungimento matematico della zona europea meno prestigiosa.
Non male, per chi, a fine della prima parte di campionato era in lista nella lotta per non retrocedere. Un monito alla prudenza, alla fortezza e, dove occorre, alla sospensione del giudizio. Perché, in ogni campo, non c’è nulla di più chiaro dei fatti, per confermare o smentire le nostre ipotesi. Persino quando sono macchiate dal pregiudizio!
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