Nella diocesi di Padova, l’avvicendamento di un vescovo è un’esperienza che per i preti ordinati negli ultimi 26 anni costituisce un fattore novità. Tant’è che moltissimi sacerdoti si stanno chiedendo da mesi: “Come sarà la diocesi senza il vescovo Antonio?” Difficile anche solo immaginarlo dopo quasi tre decenni di guida pastorale: cinque lustri lasciano il segno nell’anima, nelle scelte, nei rapporti personali. Un po’ come tentare d’immaginare una famiglia quando il patriarca se ne va: c’è sempre un po’ di trepidazione in chi rimane.
Ai più interessa sapere chi sarà il successore: in due mesi, stando alle indiscrezioni giornalistiche che sempre falliscono il bersaglio, avremmo rimesso mano a tutte le diocesi d’Italia, tanti sono i nomi additati: i più disparati, i più disperati, i più improvvisati. Per altri, fortunatamente, ciò che conta è fare sintesi di una storia condivisa assieme per poi ripartire: più attrezzati, più convinti, più uomini di Dio. Chi scrive non è stato esente dall’eterna domanda che stuzzica i cervelli feriali: “Che vescovo è stato secondo te?” Una domanda alla quale ho sempre declinato l’invito: comprendere viene prima di vendere. Anche nelle discussioni: prima viene la comprensione di un percorso, poi se ne vende la notizia. Personalmente penso che Antonio non sia stato il vescovo più bravo della Chiesa Cattolica: anche se occorrerebbe definire il concetto di “bravo” tra le mura ecclesiastiche prima di indire un concorso simile. Non il più bravo, dunque. Nemmeno il più incapace, però: dire questo sarebbe come beffeggiare pericolosamente lo Spirito Santo, il “trentatré” per cento della Trinità, il custode della profezia e dell’intuizione. Penso al mio vescovo e mi dico: “Ha cercato d’essere il miglior vescovo possibile”. O meglio: s’è impegnato a fondo per rimanere il più fedele possibile alla sua missione di successore degli apostoli.
A me, oggi, questo basta per dirgli grazie. Quando, in prima media, entrai in seminario minore, lui c’era già; quando, a diciotto anni, sono entrato in seminario maggiore, lui c’era ancora. Quando sono stato consacrato sacerdote, è stato lui a fare di un perdente come me un serbatoio della grazia di Dio. Poi vennero gli anni difficili del primo sacerdozio: il conflitto tra l’istituzione e il carisma, la lacerazione tra il centro e la periferia, la diatriba tra chi gli diceva “frenalo” e chi gli rievocò la sapienza contadina del bastone e della carota. Al mio vescovo ho sempre lasciato l’ultima parola: non gli ho mai lasciato, però, confondere l’obbedienza col servilismo, la castità con la castrazione, la povertà con la miseria. Una volta spiegategliele, ho scoperto che non ce n’era bisogno: era un uomo di sfumature e finezze. E’ stato il mio vescovo: di qualche capello bianco che oggi porta in testa, la responsabilità è mia. I capelli, però, sono come le borse in pelle pregiata di certe signore: più sono usate, più divengono belle. M’ha convinto di più dopo i settant’anni, infatti: ho riscoperto la sua umanità, la sua freschezza di spirito, il senso della profezia. Forse anche i miei occhi, nel frattempo, erano mutati. Quando m’ha affidato il ferro e il cemento della patria galera, ho intuito che i veri allenatori sono quelli che, a chi nasce fuoriclasse, dimostrano di saperci parlare. Ci sono uomini di Dio che tentano di arginare la furia dei fiumi e ne escono travolti; altri lavorano sugli argini, sui margini e la loro terra ne esce fecondata. Non senza fatica, attrezzi e sudore.
Chi gli succederà? A dare voce all’ambizione e ai pronostici, c’è un grosso incolonnamento in corso, silente e vociante. All’ambizione umana, prediligo l’ambizione dello Spirito: quello che, anni addietro, sbatté i pronostici fuori dalla Sistina e scommise tutto su di un uomo di periferia, Francesco. E’ l’unico, lo Spirito, a capirci qualcosa nel dedalo dei pronostici. Come a Padova nel 1989.
(da Il Mattino di Padova, 12 luglio 2015)