Con la freschezza e l’irruenza di un controsenso difficile da capire. Perchè qualcuno di loro – gente che abita dentro il ferro e il cemento delle carceri – per anni la guerra l’ha ideata e organizzata con le sue mani, la violenza per decenni è stato il suo alfabeto, l’angoscia era strettamente legata alla semplice presenza o comparsa sulla scena di un crimine. Gente che nel nome della guerra è finita per spargere sangue, terrore e spavento; complicando poi tremendamente la vita a loro stessi e alle loro famiglie. Eppure questa gente ieri era lì, inginocchiata di fronte ad un Pane spezzato, simbolicamente unita al mantello di un uomo chiamato Francesco che al mondo intero ha chiesto di pregare per la pace. Loro Francesco lo amano per quel suo essere povero tra i poveri, lo stimano per quella prossimità umana disarmante, lo cercano scrivendogli lettere ciclopiche e ubriache di confidenza: in quello sguardo tagliente e paterno hanno letto subito l’irruzione di un Mistero che li sorpassa, di un Qualcosa che supera la loro arroganza, di una Voce che è Voce di un silenzio che urla. Tanti di loro oltre che d’armi sono uomini d’onore: l’onore in certi lembi di umanità è tutto. Eppure stavolta si son scrollati di dosso pure quello e si son inginocchiati per pregare per la pace che, magari senza saperlo, è stato un’ammissione di impotenza della loro stessa grammatica: la violenza non porta a nulla. Chissà che peso specifico possono avere nelle bilance del Cielo le preghiere di chi nella vita ha deragliato o, tutt’al più, s’è messo un giorno al posto di Dio conducendo la morte negli occhi di qualche creatura. Rimane solo una certezza da non dimenticare mai, pena l’incomprensione di certi gesti: un santo è un peccatore che non smette mai di migliorarsi.
Invocare la pace nell’attimo più prossimo alla guerra è quasi un invito alla derisione: “tanto ormai cosa cambia?” potrebbe sempre dirci qualcuno. La natura, però, attesta che è nel momento massimo dell’oscurità notturna che l’aurora inizia a sorgere. Che è come assicurare che anche quando la morte sembra fare da padrone, la vita potrebbe sempre spiazzare con un colpo di coda e rilanciare l’avventura. Non stupisce dunque la preghiera dei “malfattori” per una giusta causa: le loro voci baritonali e stonate, il silenzio dilaniato dei loro sguardi, la tenerezza di lineamenti trasformati dagli anni di detenzione sono una delle immagini più oneste di cosa si possa fare quando il mondo unisce le forze per un sogno comune: fare in modo che in un piccolo segno stia nascondo un grande sogno, quello dell’amore. Con la preghiera il digiuno: anche quel poco che qualcuno possiede – a volte nient’altro che una pagnotta e qualche insaccato – per un giorno lo si è messo da parte in nome della pace. Non è questione di dieta, stavolta nemmeno di protesta: è un silenzioso rientrare in se stessi per trovare quel centro che permetta di avvertire cosa davvero conta in questo pugno di giorni di quaggiù. Col digiuno e la preghiera nessuno ieri ha risolto i problemi delle carceri. Eppure, impercettibilmente, ha fatto molto di più: ha mostrato al mondo che la lotta per certi ideali non conosce barriere di forza, è inarrestabile, tiene l’invadenza di un qualcosa che travolge e conquista, che affascina perchè vero. Certo: nel mentre si pregava e si digiunava qualcuno anche rideva e disprezzava, magari incapace di comprendere questa logica della privazione. Nulla però ha potuto contro la preghiera anche di uno solo di loro: perchè certi attimi della storia possono davvero cambiare quando l’uomo s’inginocchia e prega, fin quasi a far crollare Cristo dalla Croce. Per scoprire, magari in calce ad una vita delittuosa, che certi “no” detti in ginocchio valgono il centuplo di troppi “sì” mentre si sta correndo. Chissà, però, verso dove.
(da Il Mattino di Padova, 8 settembre 2013)