CuratoArs

M’intestardisco nello stanare la brace sotto la cenere. Immaginate una casa di famiglia: «Le sedie talvolta mancano di un piede, i tavoli sono macchiati d’inchiostro, le scatole di marmellata si svuotano da sole nelle dispense» (G. Bernanos). In ogni casa, assieme all’ordine, c’è sempre anche del disordine: è il prezzo da pagare per essere-abitata. La Chiesa, con la maiuscola, è una casa: assieme all’ordine, c’è anche del disordine. «Mi vergogno» ha scritto il vescovo Claudio a margine dei fatti che stanno accadendo a Padova. Un verbo pesante, il verbo del ribrezzo e del disagio, della sconcezza, dell’ignominia. Un verbo che è anche di altissima consolazione: riesce a provare vergogna solo chi, prima, ha percepito per intero la misericordia di Dio. Non è una scusa-impacchettata: è la pietra sulla quale regge la salvezza cristiana. «Vorremmo vedere altre cose dentro la chiesa» è il rimprovero che ci sentiamo sempre addosso noi preti. Chi, tra di noi, non vorrebbe vedere dell’altro? Proprio qui sta il fatto: ognuno di noi è in grado di vedere secondo i propri meriti e la grazia di Dio. Immagino il curato d’Ars in questi giorni in vacanza a Padova. Lui, che è patrono di tutti i parroci, vorreste che andasse in giro col quotidiano sotto-mano, il bisbiglio sulle labbra, il sospetto nello sguardo? Figuratevi! Continuerebbe a pregare, perchè i santi – che sarebbero i più qualificati a lamentarsi – non si sono mai lamentati. Il loro lamento è stata la continua-dedizione per una chiesa che volevano diversa.
E’ sotto il torchio che l’uva diventa vino: sotto questo torchio – il cui nome laico è tritacarne – la mia chiesa ne uscirà diversa: non più bella o più brutta, ne uscirà diversa. In questi giorni le indagini affondano, in questi giorni la chiesa di tutto il mondo prega per l’unità dei cristiani. Unità e vergogna: i due ingredienti – come l’acqua e la cenere al tempo della mia nonna -, che il Signore sta usando per fare il bucato a noi preti. “I tuoi amici giornalisti dovrebbero vergognarsi a scrivere quelle cose” mi ha scritto un confratello. Invece no, amico: che ognuno faccia bene il suo mestiere, che ognuno sia responsabile del frutto del suo mestiere. Quando si celebra l’eucaristia si dice: «E’ frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Lo presentiamo a te». Di fronte a Dio, al tramonto, ognuno ci arriva con la sua tuta da lavoro addosso: solo così si prega Dio sinceramente. Con le vesti stropicciate dal troppo sonno, con la maglia sporca di grasso, con la testa che scoppia di preoccupazioni. La mia Chiesa io la amo: quando la contesto è perchè la vorrei sempre più bella di fronte agli uomini. Contesto lei, per scoprire che sto contestando me. Forse per questo chi sceglie l’invito alla sequela – non c’è mai stato miracolo più bello di chi lascia tutto per andar dietro a Cristo: è il vangelo di oggi – calcola, nel suo preventivo di spesa, la miseria e la fragilità. A chi di noi, preti, non è mai capitato d’imbattersi su strade fuligginose, in terre di mezzo, su sentieri d’ambiguità? Il segreto, lo stesso che salvò il pescatore di Galilea quando stava per annegare, è voltarsi verso Cristo: ricordarsi dove abita la salvezza. Penso sia questa la lezione atroce che il Signore sta marcando col fuoco sulla pelle di noi preti padovani: dobbiamo tornare a credere in Dio. Nella miseria di queste notti, ho chiesto consolazione ad un amico, Keith Chesterton: «Chi non crede in Dio, non è vero che non crede in niente, perchè comincia a credere a tutto». E’ una delle notti-buie che il Signore ha organizzato per la mia Chiesa: perchè, persa la fede in Lui, anche il prete inizia ad andare alla ricerca della salvezza dove può. Dove gli dicono tutti d’andare, laddove la cenere ha un solo dovere: quello di dire a tutti che il fuoco è spento per sempre. Invece è proprio questo il guadagno di saper dire «Mi vergogno»: professare la fede in Dio, credere in Lui. Che, terra-terra, è saper vedere le braci sotto la cenere.

(da Il Mattino di Padova, 22 gennaio 2017)

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