gioco

I verbi sono come delle sentinelle: indicano, all’interno di una frase, un’azione che il soggetto compie o subisce. Da bambini, certi verbi s’impara prima a viverli e a metterli in pratica che a pronunciarli: mangiare e vedere, sentire e parlare, camminare e cadere. Giocare, per l’appunto: perchè giocare, nel senso più pulito del termine, non è inevitabilmente una dissipazione e uno sperpero. Come, in qualsiasi età della vita, la spensieratezza non è sempre mancanza di voglia di fare. Negli istanti in cui un bambino gioca, è come se avesse la possibilità di ricreare il mondo: i castelli sulla sabbia, le composizioni con i Lego, i puzzle da ricomporre. Attraverso questi gesti fanciulleschi, passa la strada che di un bambino farà un giorno un uomo. Il quadro intitolato “La Danza” (1909) di Henri Matisse è la celebrazione del misterioso fascino del divertimento: «Desidero che l’uomo stanco, oberato e sfinito ritrovi davanti ai miei quadri la pace e la tranquillità», commentò il pittore francese.

Basta entrare in un bar di quartiere – anche se oggi si può stare comodamente sdraiati nel divano di casa – per vedere l’altra faccia del gioco, però: quella del rapimento, dell’incantesimo, della perdizione. Del gioco, si potrebbe dire lo stesso delle storie d’amore: rimangono tali, diventano leggendarie, quando abitano nella tensione tra vicinanza e lontananza. Le storie, quando diventano ingorde e non sanno più tenere la giusta distanza, soffocano. Nel gioco, quando esso non diventa più solo un gioco, non si dirà più: “ho perso al gioco”. Toccherà la ben più triste espressione: “mi sono perso nel gioco”. E’ un perdere le misure fino a diventare un tutt’uno con il gioco e non saper più distinguere il gioco da ciò che gioco non è: si mettono in palio macchine, carriere, famiglie e intere esistenze. E’ il dramma che Marco Baldini – il comico toscano, storica spalla di Fiorello – ha velatamente narrato lasciando la conduzione radiofonica di “Fuoriprogramma”. E’ la motivazione data, scarna e sfuggente, a lasciare trapelare l’entroterra di quella scelta: “non sono più in grado di garantire un buon livello di professionalità” – ha lasciato detto Baldini. Quasi avesse voluto dipingere il volto di quel gioco che da amico è divenuto l’orco delle sue nottate, quello che gli impedisce di staccare perchè convinto che la fortuna sia sempre in procinto di arrivare: quel nemico che, oltre ad una fortuna monetaria, gli ha portato via la creatività, il gusto della comicità, la gioia di vivere. Quello che, come vendetta d’essere stato abbandonato, lascia come traccia di sé i debiti da sistemare, gli strozzini da mettere a tacere, l’ansia da far calmare. Sono “vite d’azzardo”: sul filo del rasoio, sovente ad un passo dal tentativo di farla finita, sempre sul punto di dire “basta” ma subito dopo disposti a ritentare la fortuna. Che, furbescamente, quasi sempre non arriva.
Gli specialisti raccontano – sovente facendo i conti con la spavalda sciatteria di chi li taccia di bigottismo – di quell’esile filo che tiene legati tra loro l’uso della droga, il consumo dell’alcool e il gioco d’azzardo. Quasi una “trinità” pagana che si mette in cooperativa per sequestrare l’uomo e confinarlo ai margini della società: forse anche alla periferia di se stesso, se si pensa a quante persone vivono portando a spasso un cuore già defunto. Sono storie grandi che nascono da storie piccole, quelle che si confondono all’angolo di un bar di quartiere, dove il tintinnio delle monete che cade nelle macchinette ha sostituito la vecchia musica che un tempo faceva da compagnia. A conti fatti (è proprio il caso di dirlo, ndr) nessuno, però, riesce ancora a far dimenticare il gioco più bello: quello di chi non distingue più il gioco dal lavoro. Per un semplice motivo: si diverte lavorando. Penso sia il vero azzardo della felicità.

(da Il Mattino di Padova, 16 novembre 2014)

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