Scelse la carne ch’era il punto di massima lontananza dal Cielo: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). Non fu per spavalda provocazione ma per la più intima delle affinità: scegliere ciò ch’era debole per confondere i forti, sposare il lontano per farlo sentire vicino, inabissarsi nell’uomo perché il Cielo penetrasse la terra (liturgia della II^ domenica di Natale). Fu l’inaudito di Betlemme, la casa del pane e della carne di Dio. Pane e carne, pane e pesce, pane e acqua: ci sarà sempre un pane a disposizione per chi, sazio di tutto, avvertirà nel cuore la fame e la sete dell’essenziale: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4). Capiterà l’assurdo, come in principio capitò l’inaudito: capiterà che gli uomini alla luce preferiscano le tenebre. C’è sempre qualcuno che scambia il sole per un punti giallo: i Vangeli questo lo mettono in conto. Lo calcolano e ne anticipano le conseguenze: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio» (1,12).
Carne si fece: null’altro e nessun altro potrà più osare di oltrepassarlo. Nella carne nascose la festa dei sensi: ascoltare quella carne sarà ascoltare Lui. E ascoltarlo sarà una festa. La festa degli occhi, di «quello che abbiamo veduto con i nostri occhi» (1Gv 1,1). Era il sogno di Mosè, che un giorno non si trattenne e diede voce a quel desiderio: «Ti prego, fammi vedere la tua gloria!». Ottenne un secco diniego, pur con una motivazione in calce: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere» (Es 33,18-20). Seppur di provenienza divina, quel no non impedì all’uomo di coltivare ad oltranza una mal e mai celata nostalgia del Suo sguardo: «I miei occhi sono sempre rivolti al Signore» (Salmi 25,15). Ciò che Mosè non potè, apparve di sorpresa a dei suoi discendenti per mestiere, anch’essi pastori: «Andiamo (…) vediamo questo avvenimento» (Lc 2,15). Videro e si stupirono. Credettero.
Divenne la festa delle orecchie, «quello che noi abbiano udito» (1Gv 1,1). A chi si fiderà dell’udito, capiterà di vedersi cambiata la vita. Di veder tramutare una notte infruttuosa di pesca in un mattino copioso di pesci. Il segreto – anche per pescatori d’arte e di mari – sarà quello di ascoltare la direzione nella quale butta quella voce: sempre nel lato giusto, quello che pare sempre il più insensato. Quello favorevole a farsi ridere dietro dalla gente seduta a riva. Le reti, però, seguiranno la parola: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). La parola, dal canto suo, accrediterà esattamente quanto aveva fatto udire: «Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (5,6). Che è poi la festa del tatto: «quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1). Del Dio che si fa contatto: intimità, tocco, ritocco, rintocco. Toccherà sempre la Divinità: saranno gioie e guai ad intervalli più o meno regolari. Batoste e incoraggiamenti: il suo tocco farà fumare i monti come sprofondare le terre, chiuderà e aprirà le bocche, costruirà e rimetterà mano alle sue costruzioni per restaurarle. Coprirà vallate di ossa cucendo addosso la carne, strapperà dalle grinfie del leone la vita come carezzerà sguardi resi ciechi ad oltranza. Con le mani in pasta: un Dio artigiano e vasaio, costruttore e manovale, pescatore e carpentiere. Con mani di padre, di madre e di Dio. Di preferenza scelse mestieri all’aria aperta: quelli che, a forza di tocchi e spinte, fanno nascere i calli, sformano le dita, anneriscono le unghie. Un Dio toccante: che tocca, emozionante. Lo crocifiggeranno un giorno. Lui risponderà a modo suo, risorgendo: la festa del gusto e dell’olfatto. Della memoria e del piacere. Di ciò che sino ad allora era follia anche solo a pensarci. Di ciò che rimase, al netto di ogni rifiuto: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).
Ancor oggi il mondo, quando Lo incrocia, lo lascia passare: il mondo intero si ferma quando incontra un uomo che sa dove andare. Per questo taluni Gli danno sempre la preferenza: non certo per pudore o buona educazione. Semplicemente per paura: paura di dover fare i conti con la sua Luce.