lance

Una sentenza lapidaria, con in calce la firma di Pat McQuaid, presidente dell’UCI: “Lance Armstrong non ha posto nel ciclismo. Merita di essere dimenticato”. Proprio lui, l’eroe che ha infiammato i tifosi nell’ultimo decennio, il cowboy spaccone che guardò in faccia il cancro che lo devastava gridandogli: “hai sbagliato avversario stavolta”, l’atleta dagli occhi di ghiaccio e l’emblema della Vita che vince sulla Morte, l’uomo vissuto due volte, il conquistatore in terra francese di ciò che a nessun altro prima di lui fu mai concesso (7 Tour de France consecutivi), il leader indiscusso di un’America che più volte l’ha eletto uomo simbolo della capacità di lottare fino in fondo. Lui adesso non c’è più: sfogliate qualsiasi ordine d’arrivo di una gara ciclistica e non troverete più traccia di quel pioniere che, guarda caso, portava lo stesso cognome del primo uomo che sbarcò in terra lunare: Armstrong Lance. Tutto truccato, la più grande beffa al mondo dello sport, la strafottente manifestazione di una forza muscolare che adesso sappiamo non essere mai stata sua. L’esagerazione.
Eppure a quell’uomo si sono e si stanno aggrappando folle devote di malati di cancro che in tutto il mondo guardano a lui come alla possibilità di vincere la malattia, il pubblico ludibrio, la fatica di accettare di andare controvento, e magari pure senz’olio, nella vita. Livestrong – la sua creatura nata per lottare contro il cancro – è oggi a livello mondiale un alfabeto di speranza, di ecumenismo umano e di scommessa sull’uomo che teme pochi paragoni: grazie alla storia di Lance, l’uomo che l’ha fatta sbocciare dalle ceneri della sua malattia. In questi giorni senza paragoni in quanto a tristezza e delusione dentro il mondo delle due ruote affiora prepotente la voglia di cancellare il tutto, in ogni sua singola traccia. Cancellare perché di fronte alla delusione anche il bene germogliato appare ridicolo e senza senso alcuno. Invece una cosa è lo sport, altra cosa è la vita, anche se i due spartiscono un alfabeto comune – per intenti, percorsi e desideri – che molto spesso fa di loro una reciproca metafora. Col rischio di esaltarsi e sporcarsi vicendevolmente.
A morire oggi è il lato sportivo e agonistico di una carriera, cosicché guardando all’ebbrezza di certe performance e contemplando lo straordinario di certe imprese l’uomo ricordi che non sono frutto del semplice lavoro quotidiano ma tengono traccia evidente di manipolazioni. A rimanere vivo, però, è il risvolto di speranza di una battaglia che oggi come mai somiglia terribilmente ad un virgulto nato alla base di un vecchio tronco d’ulivo morto: rimane la speranza che s’è inabissata nel cuore di milioni di malati di cancro che dall’esempio di Lance hanno tratto forza, coraggio e motivazioni per non arrendersi al rullo compressore della morte. Il principio che il fine giustifichi i mezzi ha aperto le porte al doping nel palcoscenico dello sport e non va condiviso; la speranza in un malato terminale, però, rassomiglia al profumo della libertà per chi vive dietro le sbarre di una galera. E’ la nostalgia di quel sapore che permette di tenere accesa la vita quando tutto sembra consigliare la resa. E questa rimane.
Madre Teresa di Calcutta – una delle atlete di punta del secolo scorso – elaborò il suo teorema per scrivere gesti di bontà e di umanità: “nella mia vita – scrisse la suora di Calcutta – mi sono sempre detta: non basta fare il bene, occorre che il bene sia fatto bene”. Nacque lì lo splendore di una donna che il mondo addita come una delle luci più accecanti dentro un secolo di tenebre quale fu il Novecento. A Lance Armstrong l’impresa è riuscita a metà: oggi c’accorgiamo che mancava la seconda parte dell’avventura, quella di lottare con stile e onestà per rendere ancora più saporito il bene fatto. “Il cammino – ha concluso McQuaid – comincia da oggi, un caso come quello di Armstrong non accadrà mai più”. A queste parole non ci crede ormai più nessuno.
L’unica cosa certa è la fine riservata ai dinosauri: scomparsi per troppa forza: loro non l’avevano mai messo in conto.


Un bell’articolo, piccante e onesto, è quello dal titolo: “Quanta ipocrisia attorno ad Armstrong” di Antonio Ruzzo, de Il Giornale.

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