“Il piccolo Charlie non stava vivendo. Stava morendo.
A sette mesi sopravviveva in terapia intensiva, intubato, senza poter fare più nulla che avesse a che fare con la vita di un bambino di sette mesi. A sette mesi i bambini cominciano a sorridere, mangiano le prime pappine, gattonano, hanno il loro giochino preferito.
Charlie non era nulla di tutto questo.
Era una creaturina gracile, immobile, sofferente e spacciata. Sì, spacciata. La sua malattia galoppava veloce e lo consumava giorno dopo giorno.
Noi non siamo i genitori di Charlie. Abbiamo il dovere di rimanere lucidi.
Nessuno ha deciso che Charlie doveva morire. Quello l’aveva già deciso quella natura ingiusta che punta il dito a caso.
Qualcuno ha deciso che dovesse farlo senza soffrire più di quanto non avesse già sofferto. E soprattutto, qualcuno ha deciso che la famiglia non dovesse essere vittima due volte: di un natura infame e di un’illusione. Legittima, comprensibile, umana ma falsa. Come certi pipponi etici e moralistici di questi giorni, che non difendono la vita ad ogni costo, ma uno slogan ad ogni costo.
E per me oggi #jesuischarlie ricorda un altro diritto: quello di morire con dignità.”
Questo il commento di un profilo Facebook, di un personaggio famoso, che riprendo unicamente perché condensa il pensiero non solo proprio, ma anche di tante altre persone, dal momento che ha ricevuto una certa condivisione, nel web.
È vero, Charlie Gard non gattona, come fanno tutti gli altri bambini. Ma mangia, solo in un modo diverso. Ed ha il suo giochino preferito, accanto a sé, in un letto. E questo si può dire di tanti bambini che non solo hanno 10 mesi, ma anche uno, due, tre, cinque, dieci o anche quindici anni, ma purtroppo hanno una malattia fortemente invalidante, come può essere, per esempio, la SMA. Possono ricevere ventilazione artificiale, occasionalmente, o frequentemente. Non è una cosa particolarmente piacevole: certo, non rispecchia i parametri social dei “selfie” da condividere con gli amici, con tanto di didascalia esplicativa.
Charlie non è il solo, perché in condizioni simili alle sue non si trovano solo altri 16 pazienti che condividono la medesima malattia. Non è che la punta dell’iceberg di tanti disabili gravissimi, giovani e meno giovani, che vorremmo non vedere e da cui magari giriamo lo sguardo perché non vogliamo rattristare le nostre tranquille giornate apparentemente perfette. Charlie non è in punto di morte, tanto che i medici non hanno avuto problemi a differire la propria sentenza mortifera, come invece avrebbero dovuto avere, se si fosse invece trattato di un paziente in fin di vita. Terminale, appunto. Evidentemente, non è così.
Il piccolo paziente, che vorrebbe essere eliminato dalla sanità inglese, nonostante la volontà dei genitori di poter tentare una cura altrove, o, al limite, accompagnarne ogni momento della vita, indipendentemente da quanto potrà essere lunga, è affetto da deplezione del DNA mitocondriale, una rara malattia genetica. Come nella maggior parte di queste patologie legate al DNA, la risposta del malato alle cure può essere molto diversa, caso per caso, tuttavia, gli esperti sottolineano che «molti bimbi con la stessa malattia sono migliorati oltre ogni aspettativa medica».
Non c’è solo la questione medica o bioetica, in realtà, siamo anche di fronte ad un precedente giudiziario dai contorni allucinanti e kafkiani, dal momento che a chiedere la morte non sono né il piccolo paziente (per ovvi motivi), né i suoi tutori legali, bensì i medici, che, calpestando quindi il consenso informato, hanno ricevuto appoggio dal sistema giudiziario. Tutta questione situazione aggiunge un senso di prevaricazione dell’autorità civile nei confronti di una situazione che di per sé è già dolorosa e complessa, di suo.
Ma torniamo a Charlie.
Charlie non sta per morire. Charlie potrebbe morire da un momento all’altro, ma questo momento potrebbe essere tra poche ore o qualche mese, o anche tra qualche anno. Non c’è alcuna certezza, al riguardo.
Charlie, semplicemente, sta. Esiste, vive. E con la sua semplice esistenza, per qualcuno inutile, per qualcun altro dannosa, riesce a mettere in discussione le nostre granitiche certezze, ridestandoci dal torpore della nostra quotidiana ignavia.
Ci riporta all’essenza più profonda del nostro essere. Perché viviamo? Che senso ha il nostro vivere?
La risposta migliore è un paradosso. “Charlie ci ricorda che la nostra vita è inutile”. Al di là della provocazione, lungi dall’essere istigazione al suicidio, possiamo trovare la verità più profonda ed universale, che parla a ciascuno di noi. O la nostra vita è inutile, o non ha un vero valore. Perché se la nostra vita è interessante solo in quanto “produttiva” o rispettante determinati (opinabili) standard, non ha un valore ma solo un prezzo. Un cartellino con il suo codice a barre. E ogni danno che subiamo (una slogatura a un dito, l’amputazione di un arto, una malattia invalidante) decide il nostro deprezzamento. Allora, non siamo più persone, ma cose. E il nostro valore è direttamente proporzionale alla nostra efficienza.
Se davvero così stanno le cose, ahinoi, perché per nessuno l’efficienza è infinita: la vita si allunga, insieme, però, con la lista delle medicine che accompagnano la nostra vecchiaia!
Se la mia vita è inutile, invece, la prospettiva è del tutto diversa. Perché cambia la domanda. La mia vita non deve soddisfare criteri di utilità, che sono sempre relativi, bensì ogni vita ha valore intrinseco, semplicemente perché è. Non perché utile, non perché interessante, non perché gattona all’età canonica e fa “quello che fanno tutti”.
Eppure, anche se volessimo guardare al criterio dell’utilità, la realtà è che il piccolo Charlie ci è stato più utile di milioni di neonati, nati su questa terra, per cui non abbiamo avuto la prontezza di ringraziare per il dono della loro vita e delle loro quotidiane conquiste. Charlie, nel suo creativo silenzio, nella sua sostanziale immobilità, con i suoi grandi occhi, aperti alla vita, ci ha interrogati, più di tante altre vite che noi riteniamo più utili e degne.
Un bimbo di dieci mesi, con la fragilità della sua vita, è riuscito a parlare al mondo intero, senza proferire parola. Ha fatto riflettere, senz’alcun eloquio accademico. Ha scosso le coscienze, senz’alcun pulpito a disposizione. Ha compiuto azioni immense, dall’alto della cattedra della sofferenza (forse, perché l’unica, veramente credibile, che consente un linguaggio universalmente comprensibile, da cuore a cuore). Come Cristo sulla Croce, è diventato pietra di scandalo. Per chiunque ne incroci lo sguardo, la storia; per chiunque ne intraveda l’anima. Cioè ciò che ci renda unici e non commutabili, motivo per il quale nessuna vita, nessun attimo possono essere considerati inutili.
L’infinitamente piccolo è riuscito a comunicare all’infinitamente grande. Tutto pienamente nello stile di Dio, che sa manifestarsi nel piccolo e nel povero. Ed è difficile trovare qualcosa di più umile di un bambino piccolo, reso ancora più fragile e bisognoso di cura ed affetto da una patologia che lo rende dipendente da chi si occupa di lui.
C’è di che meditare, a fronte dell’utilizzo di termini come dignità e libertà.
È più libero lui, grande guerriero in un piccolo corpo fragile, che lotta con ogni fibra del suo corpo per rimanere aggrappato alla vita, di noialtri assuefatti alla vita, incapaci di provare gratitudine per quello che possiamo fare, senz’alcuna difficoltà. Camminare, correre, sorridere. Respirare, bere, mangiare. Vivere!
Non importa quanto potrà essere breve o lunga: è impossibile avere l’ardire di affermare che la vita del piccolo Charlie Gard possa essere stata inutile o senza valore!
Vedi anche: Farsi presenza. Di chi è sempre-presente
Per approfondire:
La risposta di Anita Pallara, affetta da SMA
Il caso di Charlie Gard: le due domande da chiarire – Aleteia
La prognosi, il triplice dovere e il rischio dell’errore – di Carlo Bellieni, neonatologo
Charlie Gard: eutanasia e non accanimento: il cardinale Sgreccia smonta la tesi della condanna – La nuova Bussola quotidiana
Charlie è la vita di cui abbiamo paura – Il Foglio
Charlie è la nostra anima – di Silvana De Mari, medico chirurgo
Il Charlie italiano ha 9 anni. Respira e comunica – il Giornale di Vicenza
Elena e la sindrome di Leigh – lettera43