l altezza e scritta nel dna ecco come calcolare quanto sara alto

Nella lettera paolina, avvertiamo tutto il dolore di un israelita (“Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne”), di fronte al dramma del proprio popolo. Dopo che Cristo gli ha apertogli occhi, si rende conto del grande dono e – al contempo – della grande responsabilità che è annessa alla scelta – inequivocabile, irrevocabile e libera – di Dio del popolo ebraico. Il “Dio dei nostri padri” che il piccolo Paolo ha conosciuto in famiglia è però il medesimo che in Croce è morto e che gli è apparso sulla via di Damasco, a difesa della Sua Chiesa. In Lui la Rivelazione ha raggiunto la pienezza ed il compimento pieno di quanto è prefigurato nell’Antico Testamento. Ecco perché, più ancora dei Gentili, l’Apostolo delle Genti è come scisso, tra la gioia dell’annuncio missionario di Cristo a chi non Lo conosce e il rammarico di vedere come tanti dei suoi fratelli vivano ancora nell’attesa del Messia. Quel Messia sorto dalle viscere di una donna ebrea, quella giovane Maria che, con il suo sì al progetto divino, ha cambiato le sorti dell’intera umanità.  

Quel Messia che, però, nel suo rivelarsi, oggi come allora, è libero dagli schemi umani, fino a sorprendere perfino vive l’apertura alla possibilità del mistero. Così è per lo stesso Giovanni Battista. L’abbiamo visto indossare peli di cammello e nutrirsi di miele e locuste selvatiche. Caratteristiche che non sono solo note a margine oppure annotazioni di costume, ma sono un’indicazione, precisa e puntuale, della volontà di penitenza e conversione, che non solo instilla nei propri adepti, ma che il Precursore vive, anzitutto, in prima persona, quale strategia efficace per prepararsi all’avvento del Messia, di cui è ben noto l’avvento. Anzi, come spesso accade, la convinzione comune è che sia possibile anticiparne l’arrivo, con la predisposizione del cuore e dei presupposti per accoglierlo come quel Re dell’Universo che viene per salvare quel mondo, che ama fino a dare la vita, pur di redimerlo.  

C’è un breve periodo in cui la vita pubblica di Cristo e quella di Giovanni Battista si sovrappongono. È breve, perché il cugino sarà martirizzato, in seguito allo sciagurato ballo di Salomè. In questo breve periodo, ci sono alcuni segni, che fanno pensare al Messia, eppure la rivelazione non sembra ancora al suo culmine, per cui il Battista manda i propri discepoli a sondare la situazione, dopo essere stato informato “di tutte queste cose”. A quali cose fa riferimento il brano? Restando anche solo al capitolo settimo, c’era stata la guarigione del servo del centurione e la resurrezione del figlio della vedova di Nain. Già solo questi due avvenimenti dovevano aver destato uno scalpore sufficiente a vanificare ogni tentativo di “segreto messianico”, messo in campo da Cristo, per disincentivare la possibilità di guardare a lui come a una sorta di santone guaritore e risolutore di problemi.  

Tant’è. La voce si deve essere sparsa. Ma lo stesso Giovanni rimane confuso. Forse, vuole assicurarsi di non essere rimasto “troppo”; forse vuole meglio comprendere quale sia esattamente il tempo del proprio” tramonto”, perché riluca nel pieno splendore la gloria del Messia che deve venire.  

Alla domanda del cugino, Cristo risponde citando Isaia: una citazione ben nota, esplicitamente messianica. Compreso quello σκάνδαλον (skàndalon), quale segno di contraddizione, che richiama quella pietra, non spostata da mano d’uomo, in grado di frantumare tutti i regni della terra, di cui troviamo nota nel libro di Daniele (Dn 2, 34-35).  

Questa fragilità di Giovanni ci fa avvertiti di tutta la fragilità umana, cui ciascuno di noi è soggetto, nella propria vita. Ciascuno di noi è chiamato a grandi cose, perché chiamato ad accogliere, con generosità, il progetto di Dio. Se, tuttavia, ci fermiamo ai nostri successi, ci accorgiamo che sono effimeri. Durano poco e, spesso, vi segue, una rovinosa caduta. Talvolta, ci sembra di aver capito tutto. Inevitabilmente, ci troviamo “sottosopra”, come i discepoli ogni qualvolta il Maestro spiega le parabole. Potremmo scoraggiarci, potremmo illuderci che ci sono aspetti di noi irremovibile e così incrostati da essere irredimibili, oppure passare oltre ogni nostro difetto, abbassando la soglia per non vedere alcun errore (in noi stessi). È un po’ come i fanno i bambini: che si dichiarano “piccoli” se gli si chiede di fare qualcosa di cui non hanno voglia, salvo poi dichiararsi “grandi” per restare alzati a Natale o all’ultimo dell’anno.  

Ma siamo grandi o siamo piccoli?  

Questo è – forse – in nuce il grande mistero dell’uomo, intuito da Pico della Mirandola. Chiamato alle altezze vertiginose della vita divina, da un Dio disposto a soffrire pur di regalare all’uomo la vita, rimane pur sempre impastato di carne e sangue, soggetto alle tentazioni, agli errori, alle fragilità della sua natura umana e indissolubilmente legato al destino della terra che abita. Un uomo rivestito di dignità come un re, ma non immune dalla fragilità.  

C’è quasi da perderci la testa.  

Dio sceglie di non spiegarci in modo esplicito questo grande mistero, ma di manifestarlo, mantenendo il mistero, reso abitato dalla Sua presenza, che attesta la benevolenza di Dio per questa carne mortale, assetata di Cielo. 


 Rif. letture festive ambrosiane, nella III Domenica di Avvento, anno C

Fonte immagine: pianetamamma

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