gramamticaL’ha chiesto a nome suo per fare un piacere pure a me, che di lui sono figlio, fratello o fors’anche padre: chi lo potrebbe attestare? L’importante è che l’abbia chiesto proprio a Lui, a distanza di un volo d’api da Gerusalemme, sulla cui sommità operai pagati un soldo a giornata stanno già provando le prime manovre di crocifissione. Su queste strade Lui – che della domanda è il destinatario e, chissà mai, pure il nostalgico – ha battuto come profeta. Butta l’occhio a destra e vedi: i crocicchi sono stati i suoi pulpiti, in quelle piazze ha sgranchito paralitici e gobbi, su quei vicoli chiusi e illuminati d’oscurità ha acceso la vista ai ciechi. Eppoi la piscina con i suoi profanatori, la strada al cui incrocio raddrizzò la donna curva, rasserenò la mano rattrappita dell’uomo infermo. Strana sorte per quest’Uomo: per un amico mandato a casa guarito, dieci o forse cento nemici s’erano aizzati contro per annunciarGli l’avvento di un giorno funesto. A breve – appena qualche domenica d’attesa – e lo faranno fuori. Oggi lo vogliono semplicemente trarre in inganno: come ieri con la storia di Cesare, l’altro ieri con l’episodio della lebbra cancellata in un giorno di festa o come domani quando, dall’alto di un Legno sgualcito, Lo inviteranno a fare il miracolo dei miracoli: rifiutarsi di lacrimare per mostrarsi Figlio di Papà. Non raccoglieranno nulla queste vecchie anticaglie del sospetto, ma intanto gli rubano frammenti di tempo sulla strada che conduce al Golgota: “Maestro, qual’è il più grande di tutti i comandamenti?” Punto di domanda e punto a capo. Una semplice coniugazione verbale – fissata in quell’imperativo che non ammette fronzoli o ambiguità – come accecante risposta: “Amerai”. Un verbo da lasciar com’è: nudo e crudo, tremolante e fradicio di usura, accecante e tenebroso. Scandaloso per bellezza. Perché “amerai” non è “ti affezionerai, ti lascerai sedurre, t’incanterai, accarezzerai”. Quello è voce del verbo amare, modo imperativo, tempo futuro, seconda persona singolare. Un verbo diretto, pungente, preciso. Oppure – per i palati mentali più fini – amerai è voce del verbo morirai: “ti consumerai, ti sfinirai, ti spremerai”.

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «”Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
(Dal Vangelo di Matteo cap. 22 vv. 34-40)

Dalla terra al cielo, non viceversa all’inizio: “il prossimo tuo come te stesso”. Mai avverbio di modo (“come”) fu più pesante sotto il cielo di Galilea, più vicini al Golgota che alle onde di Genesaret. Perché amare Dio e il prossimo slegati dalla storia di noi è cosa troppo facile, assai facile che lassù sia quasi ridicola: un po’ come abitare una casa ma amarne di più un’altra, o come sposare una donna ma tenere il cuore accovacciato alla porta di un’altra. No, stavolta – fortunati noi che un metro di misura pure ce l’avremmo – amerai Dio allo stesso modo che amerai te: “come te stesso”. Mai potrai amare Dio e il prossimo se non amerai le tue orecchie a sventola, quell’andare moccioso e stempiato dovuto alla canizie, quell’accento irruento e acetoso che ti ricorda la tua provenienza clandestina, quel callo sulla mano a imperitura memoria di un umile lavoro. O quella mano monca, quel piede zoppo, quella cicatrice addosso che ti rendono bello e miracoloso perché vissuto. Bello perché amante e amato.
Come te stesso. Non potrai amarLo e amarli più di te. Perché mai nel cielo dei Vangeli un uomo è riuscito a disprezzare il suo albero genealogico e la sua provenienza ed è riuscito nel contempo ad amare Lui. Dalla terra al cielo “con tutta l’anima, con tutte le tue forze, con tutto il tuo cuore”. Ama te stesso all’inverosimile per riuscire a tentare poi l’avventura d’amare Dio e il prossimo – che di Lui quaggiù è traccia – per lo meno quanto te.

“Io credo che la grammatica sia una via d’accesso alla bellezza. Quando parliamo, quando leggiamo o quando scriviamo, ci rendiamo conto se abbiamo scritto o stiamo leggendo una bella frase. Siamo capaci di riconoscere una bella espressione o uno stile elegante. Ma quando si fa grammatica, si accede a un’altra dimensione della bellezza della lingua. Fare grammatica serve a sezionarla, guardare come è fatta, vederla nuda, in un certo senso. Ed è una cosa meravigliosa, perché pensiamo: “Ma guarda un po’ che roba, guarda un po’ com’è fatta bene!”, “Quanto è solida, ingegnosa, acuta!”. Solo il fatto di sapere che esistono diversi tipi di parole e che bisogna conoscerli per definirne l’utilizzo e i possibili abbinamenti è una cosa esaltante. Penso che non ci sia niente di più bello, per esempio, del concetto base della lingua, e cioè che esistono i sostantivi e i verbi. Con questi avete in mano il cuore di qualunque enunciato. Stupendo, vero? I sostantivi, i verbi…” (M. Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, 2009)

Tutto il resto è flebile illusione d’essere uomini. Quei lentigginosi riverberi del pensiero che, forse, ci mettono a posto la coscienza al tramontare di ogni sole. Ma non fanno più battere il cuore di Dio. Che della grammatica italiana è fine intenditore, fin quasi ad usare l’avverbio più maneggiato (“come”) per insegnare all’uomo a contemplare l’Amore di lassù.

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