Vanitas by Kevin Best

“La pazienza di Giobbe” si usa dire, per ricordare una persona dotata di pazienza fuori dal comune. Più correttamente, forse, si dovrebbe dire una pazienza da Dio. Infatti, sin dall’antichità, si può dire che sia stato Dio a “rincorrere” continuamente l’umanità, molto più spesso dedita a sfuggirgli, che a cercare di compiacerLo. E anche quando ciò accada, sembra quasi che siamo noi ad essere intenti a concedere graziosamente un favore a Dio, come i despoti assoluti del XVII secoli e non, al contrario, il nostro vero bene.

Non ha inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e compassione li ha riscattati, li ha sollevati e portati su di sé, tutti i giorni del passato. Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito.  (Is 63, 9 – 10)

Dio si scomoda in prima persona: non interpone altri, pur chiamando l’uomo a collaborare all’opera di Dio. È – questa – una prova d’affetto. Intervenire in prima persona equivale ad essere disposti alle conseguenze, delle proprie azioni; spesso, infatti, demandare ad altri l’intervento rischia di essere posizione di comodo, per poi “lavarsene le mani”.
Tuttavia, Egli si dimostra sempre oltremodo rispettoso del nostro libero arbitrio, non fa “fuoco e fiamme”, quando noi vorremmo, quando noi, al suo posto, lo faremmo, senz’alcun indugio. Aspetta, attende, pazienta. Offre una seconda chance. Ci concede del tempo, ci concede del dubbio, delle domande. Non ci tiranneggia, esigendo obbedienza cieca e assoluta. Quella è l’illusione d’onnipotenza che cercano gli uomini, quando vogliono sostituirsi a Dio!

In confronto a Mosè, egli [Cristo] è stato giudicato degno di una gloria tanto maggiore quanto l’onore del costruttore della casa supera quello della casa stessa. Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che ha costruito tutto è Dio. (Eb 3, 3 – 4)

San Paolo, nel paragonare il Regno di Dio ad una casa, paragona Mosé ad un servo, rispetto a Cristo, che è considerato il costruttore. Questa metafora serve a sottolineare la divinità stessa di Dio, consustanziale col Padre, affinché sia chiaro che il Maestro di Nazareth è Principio di ogni cosa, cioè il Verbo Incarnato, Dio come il Padre.

E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo. (Eb 3,6)

Non è la prima volta che San Paolo parla in questi termini. L’intera opera paolina è impregnata di questi tre termini. Libertà, speranza, vanto. Il credente è liberato da Cristo, per restare libero (cfr. Gal 5,1). «Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1Cor 15,14): dalla Resurrezione di Gesù, nasce la speranza, nonché il vanto: lungi dall’essere moto d’orgoglio, la fede del cristiano diventa vanto in quanto caratteristica peculiare, che, contraddistinguendolo, diventa parte della sua stessa identità.

[…] voi non volete venire a me per avere vita. (Gv 5, 40)

Giovanni, sempre acuto osservatore, in dialogo con la filosofia, non cessa di porsi domandarsi sull’identità di Cristo e ci tiene a mettere in luce le caratteristiche peculiari che ce ne mostrano la divinità, senza mai dimenticare, tuttavia, la sua profonda umanità.
Cristo è Vita, perché distributore di vita. È come una sorgente: chi vi arriva, trova qualcosa che non può trovare paragoni con null’altro. In Cristo, è la vita stessa a trovare significato, gusto, pienezza. Nessuna sfida è per sempre. Cristo, invece, mostra la possibilità di una vita santa e realizzata. Come altrove sottolinea, però, ciò non è possibile, staccandosi dalla fonte della santità. Come i tralci non danno frutto, se staccati dalla vita, così la nostra vita perde il proprio gusto e si lascia soffocare dai problemi, che immancabili, costellano la nostra quotidianità.
Io non ricevo gloria dagli uomini (Gv 5, 41), precisa Gesù, rendendo esplicito un rapporto, che alle volte tendiamo ad edulcorare, quasi che sia Dio ad essere nostro debitore. Non sono i nostri sforzi ad aumentare la gloria di Dio, non è il nostro impegno ad aumentare la perfezione di Dio. È Dio che ci chiede la nostra collaborazione, al proprio progetto.

[…] come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? (Gv 5, 44)

C’è una vanagloria che si aggira, strisciante, tra le dinamiche della nostra mente. Come antidoto, dovremmo, invece, rispolverare quella del servo inutile (Lc 17,10): lungi dall’essere autocommiserazione, in realtà, essa ci aiuta a trovare il nostro posto. A volte, soffriamo del male tolemaico: siamo convintissimi che tutto giri intorno a noi e che, senza di noi, non sia possibile fare nulla. Tornando al paragone del tralcio e della vite, risulta chiaro come noi effettuiamo, in modo più o meno consapevole una sorta di “scambio dei ruoli” con Dio. Inseguiamo, consapevoli o meno, l’applauso della folla, l’affannosa ricerca della nostra personale affermazione attraverso quella che in realtà è solo affermazione esteriore, cioè tramite lo sguardo altrui (che, però, essendo soggettivo, non sempre è in grado di dirci la verità su noi stessi): ecco perché la gloria del mondo è transitoria. Dura quanto  la moda, finché non cambia il carro del vincitore, lasciandoci a piedi, con un palmo di naso.
Sarebbe bello, invece, interiorizzare la vera dinamica del servo inutile, perché è dispensatrice della vera pace: è consapevolezza che il nostro agire ha un limite, che però non è invalicabile. Come a Cana di Galilea, l’unica soluzione al finire delle nostre forze, è affidare il nostro impegno alla mano sapiente (e capace di apprezzare il gusto del frutto della vite) di Dio, che, come sua abitudine, largisce con abbondanza grazie che, spesso, rimangono, però, incomprese.  

(Rif: letture festive ambrosiane, nella II Domenica dopo il Martirio di San Giovanni Battista)


 Fonte immagine: Chess.com (Still Life – Infinite Vanitas, Kevin Best, 2011 )

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