Probabile che anche a quel tempo la situazione fosse una conseguenza di una crisi economica diffusa: perduto il posto fisso, si moltiplicarono i braccianti, i lavoratori a giornata, anche gli improvvisatori del mestiere (liturgia della XXV^ domenica del tempo ordinario). Succedeva e basta: nessuno ci faceva più di tanto caso.
L’uomo che tiene una vigna è un uomo fortunato: le viti sono un piccolo impero, quella terra rende grappoli e bevande, presente e futuro. Il lavoro è tanto – un giorno quel Padrone dirà che «la messe è molta ma gli operai sono pochi» -: mancano gli operai. Che, però, vengono “selezionati” sui gradini della piazza: «Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna». Due piccioni con una fava: lui s’è organizzato la giornata, loro si guadagnano il pane. Quando poi son pochi, ritornerà dove ci sono ancora forze in abbondanza: «Verso le nove (…) Verso mezzogiorno (…) Verso le tre». Così tanto lavoro in quella vigna forse non se l’aspettava nemmeno lui: fu costretto ad uscire «ancora verso le cinque». A quell’ora i primi avevano già sulla groppa il peso di otto ore di lavoro: sole, vanga e zappa. Oppure grappoli, ceste e carretti. Sembra d’essere in un’azienda a gestione familiare: tutti collaborano, ci mettono del proprio, s’applicano nel lavorare la terra e le viti. Fino a sera, fino alla paga. Che rimase la sorpresa più inimmaginabile, ancor più dell’esser stati assunti: «Chiama i lavoratori e dai loro la paga – chiede il padrone al suo fattore -, incominciando dagli ultimi sino ai primi». Dagli ultimi: in modo tale che potessero fare proiezioni sul loro salario, immaginare la quantità delle monete rapportata alle ore lavorate. Per poi toccare con mano quant’era distante la loro imprenditoria da quella del padrone: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Come a dire: se non sei capace di fare il padrone, torna tu a zappare la terra. Quando invece il contratto parlava chiaro: «Non hai forse concordato con me per un denaro?» Già, sempre quello rimane il problema: leggere bene (sopratutto le parole scritte in piccolissimo) prima di mettere in calce una firma. Prestare attenzione a ciò che si firma: nelle pagine del Vangelo – che sono poi vigne da coltivare, spighe da raccogliere, gigli da contemplare – non c’è mai nulla d’insignificante. Di così inutile da potergli sottrarre l’attenzione.
Per quanto riguarda i “contratti delle cinque del pomeriggio”, il Padrone sembra mostrare gelosa cura, quasi un’accortezza che ai più suona come ingiustizia. Alle cinque – cioè quasi allo scadere – firmò contratti fastidiosi: quello con la Samaritana, con la Maddalena dai sette demoni, con l’adultera e con Zaccheo. Per non parlare del contratto concesso al Ladrone di destra quando ormai le cinque erano già suonate: «Oggi sarai con me in Paradiso». Mica è semplice voglia d’irritare, sai: più che di provocazione sa di giustizia, quella di Dio che, prima di tutto, cerca sempre la radice: di un precariato, di un peccato, di un perdersi: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?» Chiede prima di tutto. E loro rispondono, prima di tutto: «Perché nessuno ci ha presi a giornata».
“Sono uomini che non fanno sfoggio delle loro prestazioni di fronte a Dio. Non si presentano di fronte a Lui come una sorta di soci paritetici in affari, che in cambio delle loro azioni pretendono di essere adeguatamente ricompensati. Sono uomini che sanno di essere anche interiormente poveri, persone che amano, che accettano con semplciità ciò che Dio dona loro e proprio per questo vivono in intimo accordo con la natura di Dio e la sua Parola (…) Giungono con le mani vuote, non con mani che afferrano e tengono stretto, ma con mani che si aprono e donano e così sono pronte per la bontà generosa di Dio”.
(J. Ratzinger, Gesù di Nazareth. La figura e il messaggio)
Eccolo il motivo della disoccupazione: nessuno ha dato loro fiducia. Forse erano gobbi o un po’ gracili, mezzi sbilenchi o malaticci, senza una gamba o privi di qualche dita della mano. O forse erano a posto ma nessuno s’azzardò d’investire in quelle storie disoccupate: «Amico, forse tu sei invidioso perché sono buono?». Accipicchia: colpito e affondato. Altro che il peso di otto ore di lavoro sulle spalle: la vera fiacchezza era l’invidia, quell’orma schifosissima che Satana ha seminato dentro le vigne del Vangelo e nelle stanze di casa mia. Quell’inettitudine d’animo di giudicare senza conoscere, di firmare senza leggere, di parlare senza pensare. O forse era una cosa ancor più fine: l’invidia nel vedere che quell’Uomo pagò agli ultimi anche le ore passate sui gradini. Che non erano ore passate a far nulla ma a fare i conti con la mestizia di un fallimento.
Ore disoccupate, le più spossanti: e Cristo lo sa.