librettoassenzePiù che di verginità stavolta è questione di puntualità: costretti ad abbandonare un lato morale del cristianesimo fatto diventare col tempo lugubre moralismo, oggi il Vangelo c’inchioda alla questione del tempo. Di quel tempo declinato al futuro che per Dio profuma d’Eternità. Sarà anche vero che Lui sembra tardare ad arrivare – a parte il fatto che “ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (Sal 89) – ma noi, nel frattempo, abbiamo trasformato le nostre chiese in accampamenti nei quali firmare colossali dormite. Alcuni addirittura hanno smesso di lavorare, qualche discepolo ha già tirato i remi in barca, in qualche parte d’Italia s’è già preparato lo zaino prima del suono della campanella. Impeccabili, correttamente tristi, formalmente composti; così corretti col mondo da scordarci che Lui deve arrivare da un momento all’altro. Si vivacchia accontentandosi di una vogliuzza per il giorno, una per la notte e senza del domani darsi affanno alcuno. C’è uno sposo che deve arrivare, c’è una festa alla quale partecipare, c’è dell’olio da centellinare in quelle lampade: eppure, ghermiti dall’abitudine, non c’accorgiamo che nelle lampade s’è accesa la spia che ci rammenta di fare il pieno. Il pieno di sogni, di speranza, di attesa.
L’hanno predetto così in tanti, finora, che nessuno più ci crede. Tutti quelli che l’hanno predetto la storia li ha annoverati come fattucchieri e cartomanti, inebetiti indovini e straccioni d’accattonaggio. L’unico che non ha mai predetto ma ha semplicemente promesso è l’Unico ancor oggi al quale sembra impresa di Sisifo accordarne la fiducia. Eppure arriverà, forse sta già arrivando, lo scalpitìo dolcissimo dei suoi passi ce l’annuncia. Poco importerà se in quell’attimo le spose saranno uscite alla ricerca di quell’olio che tenga accese le lampade: dovevano calcolare bene i tempi d’attesa prima, non intrattenersi in quisquilie da bottega, non approfittarne troppo dell’attesa procurata da Dio. Quel giorno non esisteranno giustificazioni valide per entrare in classe dopo che la porta sarà stata chiusa: la porta chiusa dichiarerà chiusa la storia.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».
(Dal Vangelo di Matteo, cap. 25 vv. 1-13)

La storia che chiedeva di vigilare, d’essere fiduciosi del domani, che chiedeva attesa. Eppure c’è tutto un mondo che attende: l’alunno attende il voto, il paziente l’esito dell’esame, la mamma il figlio da scuola, il bambino l’acqua calda dalla doccia, l’innamorato il bacio dell’amata. L’albero attende le stagioni, il mare i fiumi, il fuoco l’ossigeno, l’affamato il cameriere, lo stomaco il cibo, la moglie il marito. La Scrittura Sacra è attesa: per entrare nella terra promessa, per ricevere il perdono dopo l’infedeltà, per una vittoria, per un urlo disperato. Tutto vive di attese: il mondo, la politica, lo sport. La vita, praticamente, è un’enorme, confusa, disorganizzata, pericolosa, splendida e chiassosissima sala d’attesa. E’ sempre in attesa. E l’uomo, per accorciare l’attesa, pone una scadenza. Ma la scadenza crea un’altra attesa e così il gioco non finisce mai. Non è un problema: siamo nati per attendere. Peccato che, ogni tanto, attendendo ci addormentiamo. E’ anche bello dormire pensando che tanto se Dio arriva attenderà pure Lui: che ci svegliamo, che ci prepariamo, che carichiamo le lampade. Peccato davvero che questo non sia Dio: o forse è quel Dio emaciato che un certo cristianesimo s’è costruito ad uso e consumo della sua spiritualità.

“Ho sognato un uomo che si presentava al giudizio di Dio. Vedi, mio Signore – gli diceva – io ho osservato la tua legge, non ho fatto nulla di disonesto, di cattivo o di empio. Le mie mani, Signore, sono pure. Senza dubbio – gli rispondeva il buon Dio – ma le tue mani sono anche vuote”. (R. Follerau)

I crisantemi sulle tombe dei nostri defunti, l’alfabeto speranzoso della solennità dei santi, quel tempo dell’uomo nostalgico del tempo di Dio ci chiede d’essere uomini d’attesa, sentinelle aggrappate a quell’alba che s’appresta a svegliarsi nel profondo della notte. Sperare il futuro di Dio è migliorare addirittura il nostro presente. Fino a far diventare la nostra speranza quella di un’intera comunità. Che attendendo fa le prove generali per l’accoglienza dello sposo. Con un occhio sempre di riguardo a quell’olio che illumina e che, qualora mancasse, racconterebbe di un’esistenza spenta. Non semplicemente di una lampada rimasta orfana di olio.

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