Grano contro zizzania. “La speranza nasce dal fondo dell’abisso. Se io sono disperato, condannato, specialmente se sono ergastolano e so che la mia data di liberazione è il “mai”, ecco che può venire fuori tutta la bellezza e la potenza dell’uomo. In quel momento sei senza futuro, eppure senti che un futuro in qualche modo te lo devi inventare. E’ un controsenso, si intende. Però basta che dal fondo intuisca uno spiraglio, perché ce la possa fare. Anche se sarà doloroso arrivare fino in cima. Ma so che la luce esiste. So che si può. In carcere ci si addormenta con mille interrogativi, qualche giorno ci si può anche svegliare con una risposta”. (Alfredo Bonazzi, 7000 giorni di galera per l’omicidio di Viale Zara, Milano 3 aprile 1960). Zizzania trasformatasi in grano.

Ma grano e zizzania, da che mondo e mondo, non possono convivere. Si procurano molestia a vicenda. La zizzania fa del male al grano, la dorata bellezza del grano infastidisce la zizzania. O il grano o la zizzania: è così semplice la questione nelle prospettive terrestri. Problematica è quando la si legge da Lassù. Dove tutto sembra viaggiare al rovescio. “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano, invece, riponetelo nel mio granaio” (Mt 13,24-43). Strategie calate dal cielo per una botanica stranissima. Come quella pesca compiuta gettando le reti in alto mare irritate da un sole a picco. O come la morte perpetrata fuori dalle mura della città, al pari del delinquente. Del ladrone. Del malfattore.
Discutibile la pedagogia ri-educativa del Signore della Vita.

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Basta, Signore: sarebbe ora di un castigo esemplare. Di una morte anticipata. Di una pena proporzionata al delitto compiuto. Di un macigno sulla sua testa. Di un viaggio anticipato e senza ritorno nell’Aldilà. Di una sofferenza pari alla sofferenza provocata. Perché la responsabilità è grave, pesante, inequivocabile, lacerante, disumana, indigeribile, stancante, gravosa e sfibrante. Perché ha violentato e soffocato, offeso e massacrato, molestato e deriso. Zizzania da estirpare al più presto: c’è il buon grano da salvaguardare.
E Lui tace! Imbavagliato in quel silenzio incallito chiamato misericordia. Strano trattamento per la zizzania: ancora una possibilità, un’occasione di riscatto, un tentativo di ri-educazione, un’occasione di rinascita, una chance d’attesa umanità. Un Dio imbrogliatosi volutamente nell’amore per l’uomo da non convincersi mai che per l’uomo sia tutto finito. Come davanti a quell’evangelico fico quando tutti ne invocavano la condanna a morte: “da tre anni vengo cercando frutti e non ne trovo. Taglialo!” Ma quel contadino è strano, rinvia la condanna a morte: “lascialo ancora quest’anno, finchè gli zappi intorno e gli metta il concime”. Lascialo! Cioè usa misericordia. “Quest’anno” è la durata della nostra storia, che dura sempre ancora un anno per l’intercessione del Figlio. Siamo tutti dei precari ai quali ogni anno viene rinnovato il contratto. Fosse per gli altri, noi – fichi improduttivi che si cibano di zizzania – saremmo già legna da ardere. I nostri simili chiederebbero l’estirpazione. Tutti, tranne Uno che dice: “Lasciateli crescere insieme”. Cioè ti lascia vivo, ti lascia te stesso, ti da fiducia perché vedi in te delle spighe che tu non sai più dove siano. Ti lasci vivo perché è paziente, perché ogni anno la sua voce risuona per scusarti di fronte al padrone della vigna. Ancora un anno! Poi? Forse lascerà che il padrone ti tagli. O forse ripeterà lo stesso discorso l’anno prossimo, poi il prossimo anno ancora, come uno smemorato vignaiolo che fa finta d’invecchiare.
Anche tu, in mia compagnia, sei come la zizzania del vangelo. O come il fico: vivi solo perché il padrone è paziente, perchè continua a zappare e a lasciar crescere, perchè non si stanca di concimare sognando sempre il domani. Precario io, precario tu. Precari ma immeritatamente-raccomandati perché il Padrone ci regala ancora un anno di tempo per vivere. E convertirci. Un mese. Un giorno. Un’ora. Un secondo. Un millisecondo. Fregatene! E’ sempre tempo in più: non scontato, non meritato. Non atteso! C’è chi pensa: ormai è tardi, la situazione è irrimediabile, la pazienza di Dio è esaurita. E c’è chi pensa: Dio è paziente, c’è sempre tempo. La parabola ci suggerisce un altro atteggiamento, piuttosto: il cambiamento, la conversione è ancora possibile, ma non si può programmare né approfittare della pazienza di Dio. Sarà importante convertirsi? Vedi tu: ti lascia ancora un anno per far cosa?
E Il Paolo predicatore, nella seconda lettura, sbriciola la nostra capacità di preghiera, ci fa annusare la polvere nel lastrico, ci dice chi siamo. Che cosa facciamo. Di cosa siamo artisti: “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26-27). Nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare. Bastassero le devozioni. O certe preghiere puntigliose, precise, minuziose, ricercate, sottili, interessate. Erronee. Bastasse questo: della zizzania nemmeno l’ombra.
Ma cos’è allora la preghiera?
Leggi questa storia che Alessia ha fatto recapitare in parrocchia giovedì sera.

Mi inginocchiai ma non a lungo. Avevo troppo da fare, e dovevo fare in fretta: andare a lavoro, passare prima a pagare le bollette. Così mi inginocchiai e dissi una preghiera veloce e, altrettanto velocemente, mi rialzai. E dentro di me mi sentivo apposto, avevo – a modo mio – adempiuto al mio dovere di Cristiana. La mia anima poteva stare in pace. Durante la mia giornata (e durante tutte le giornate della mia vita) non avevo tempo da dedicare a persone bisognose, non avevo tempo per pregare, non avevo tempo per parlare di Cristo agli amici. E anche se ce lo avessi avuto non lo avrei fatto, perchè temevo che si prendessero gioco di me.
Un giorno non avevo tempo, l’altro mi vergognavo. Fino a che, alla fine, venne il tempo anche per me: il tempo di morire. Andai davanti al Signore, e nelle sue mani vidi un libro: era il libro della vita. Gesù guardò il suo libro e disse: Non trovo il tuo nome. Una volta fui tentato di scriverlo. Ma non trovai mai il tempo per farlo. E anche se lo avessi trovato, mi vergognavo perchè temevo ciò che avrebbe pensato il Padre Mio.

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Parole di apostoli-uomini: “Vuoi dunque che andiamo a raccogliere la zizzania”. No! Giù le mani dalla zizzania. C’è un esercito di angeli già allertato per la mietitura finale. Tu semina il bene: con pazienza, con lungimiranza, con fiducia. Deciso, ma senza fretta. E lascia che cali pure la tempesta.
Ma la zizzania cresce solo nell’erba del vicino?

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