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Una delle più belle invenzioni degli esseri umani è senz’altro l’architettura.
Dalle palafitte all’Empire State Building, da San Pietro alla Tour Eiffel, passando per la Grande Muraglia Cinese. L’architettura nel corso dei secoli ha plasmato paesaggi ed è a sua volta stata plasmata da idee sempre nuove e da quell’entusiasmo che è un invito a non fermarsi mai, a provare sempre qualcosa di inesplorato.
Una delle più brutte invenzioni dell’essere umano è senz’altro l’architettura… mentale.
Non costituita da pietre, marmo od acciaio, ma da muraglie psicologiche, da profondi fossati emozionali, da barriere di pregiudizi. L’architettura dell’aut-aut, come la chiamo io. Che divide, che preferisce le porte sbarrate ai ponti, le imposte chiuse alle finestre spalancate.
Questo tipo di architettura la maggior parte delle volte ha la stessa funzione di un macigno di zavorra per una mongolfiera che vuole prendere il volo: non solo completamente inutile, ma anche dannosa.
La seconda brutta invenzione dell’essere umano è il tifo da stadio… fuori dallo stadio. Ovvero la divisione in fazioni, in tifosi dell’una o dell’altra opinione, che però non si ascoltano mai a vicenda, perché sono troppo impegnati a recitare a squarciagola i propri slogan per potersi invece mettere l’uno di fronte all’altro e dialogare come si deve.
Tifo da stadio ed architettura mentale insieme sono una combinazione micidiale, una cappa che soffoca ogni ventata di ossigeno che giunge dall’esterno per poter ravvivare l’aria. Una zavorra vera e propria per le due ali che l’essere umano ha in dotazione. Non fatte di piume, ma capaci di fargli ugualmente spiccare il volo se usate nella giusta maniera, quella fede e quella ragione così splendidamente descritte nell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II.
La Misericordia solitamente è allergica alle architetture. Con Abramo stese nel deserto una coperta di stelle, invitandolo bonariamente a contarle; per Pietro scelse le acque azzurre di un lago incastonato tra le verdi colline della Galilea. Nel suo momento più alto, quello dell’apparente sconfitta, si lasciò issare a metà tra terra e cielo sulla cima di una collina petrosa. Le pareti, fisiche, di pietra, marmo o vetro, sarebbero arrivate più tardi, insieme però alle piazze ed alle spianate dalle folle oceaniche delle GMG.
Le architetture mentali, poi, non sa proprio cosa siano. Sue sono le iniziative di quel Dio che “fa nuove tutte le cose” e che non teme né i percorsi fuori-strada né le capriole della fiducia.
Anche ieri la Misericordia ha invitato a colmare i fossati, ricordandoci al tempo stesso che la sua matematica sconvolge ogni teorema terreno, poiché l’amore si può moltiplicare solo con-dividendolo. L’amore per il prossimo e per il Creato, specie quello domestico e dotato di coda e quattro zampe, non hanno alcun motivo di sottostare alla regola dell’aut-aut, non chiedono di essere l’uno alternativa all’altro, bensì domandano complementarietà in quanto ognuno è apertura all’Altro, ognuno ha la capacità di tirare fuori il meglio di noi. In molti si sono sentiti chiamati in causa da un appello che altro non era che un invito a fare breccia in quell’architettura mentale che usa il bilancino per soppesare quanto amore da donare e a chi. I cori da stadio hanno gettato poi altra legna su un fuoco divampato in poche ore. I sostenitori del Creato contro quelli del Prossimo, roba da far mettere le mani nei capelli all’intera corte celeste, a san Francesco d’Assisi – eletto suo malgrado patrono dell’una o dell’altra fazione, strattonato da una discussione all’altra come un vessillo – e forse anche alla Misericordia stessa, troppo spesso incompresa e fraintesa.
E pensare che la soluzione se ne è sempre stata lì, a portata di mano di chiunque.
Gettare bilancino e zavorra.
Solo così è possibile alzarsi in volo, osservare tutto da un’altra prospettiva e accoglierla in un unico abbraccio.
Piuttosto che misurare l’amore con gli occhi del mondo, suddividendolo in categorie come “prossimo” e “animali” che alcuni vorrebbero come alternative misurabili ed inconciliabili, sarebbe invece meglio provare a vedere il mondo con gli occhi di Dio, Padre di quel creato che racchiude entrambe le categorie da amare e rispettare senza riserve.
Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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