La storia di Ben. Cupa, impietosa, tragicamente ineluttabile, a tratti – forse – anche inquietante. Eppure, trasuda speranza. Quella speranza che dà senso all’esistenza. Perché se la morte non fa più paura, resta solo la gioia.
Scalando le classifiche YouTube, complice la quiescenza delle feste, la storia di questo ragazzo raggiunge popolarità anche attraverso i telegiornali. Una storia di speranza, che travalica i confini di vita e morte, portando gli occhi a vedere oltre le barriere più fitte e invalicabili.
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Chi è? Lo dice lui stesso, negli ultimi due video apparsi su YouTube, diversi dai precedenti. Ben aveva 18 anni e viveva ad Austin. Era nato affetto da cardiomiopatia ipertrofica, una condizione in cui una parte del cuore è più spessa delle altre, impedendo il battito regolare. Nei video racconta la sua vita e, in particolare, tre esperienze pre–morte in cui ha visto una luce intensissima (particolare comune a molte altre persone che hanno avuto un’esperienza simile alla sua). Queste esperienze da un lato lo spaventavano, ma dall’altro gli lasciavano il ricordo di una rassicurante sensazione di pace che non è mai riuscito a dimenticare. Il video si chiude con due cartelli: «Credete negli angeli o in Dio? Io sì». Una settimana dopo, la sera di Natale, Ben è morto.
La riflessione più immediata che mi viene è che siamo piccoli e goffi. Forse anche un po’ spacconi e superficiali. Perché alla fine – chi più, chi meno – ci diciamo tutti cristiani, quanto meno per la nostra cultura o la tradizione familiare. Tutti facciamo festa a Natale e Pasqua e ci scambiamo gli auguri. È tradizione e in fondo – siamo onesti – fa anche piacere trovare un’occasione propizia per rivedere amici e parenti (anche se non sono sempre tutti graditi…). Ma ci soffermiamo ogni tanto a pensare ad una vita oltre la morte? Pensiamo che possa esserci una porta aperta, dopo la chiusura di un’altra ad opera della morte? Ci auguriamo anni lunghi, eppure non pensiamo mai all’eternità. Rincorriamo la salute, però non pensiamo alla salvezza, anzi siamo quasi sempre disturbati dai tentativi di spingere il nostro sguardo oltre il “qui ed ora” che non abbia una progettualità concreta e materiale. Tali tentativi sono visti come fanatismi, quando non come un attentato al quieto vivere quotidiano. Magari andiamo anche alla Messa, che resta però – ad essere onesti – poco più che il ripetersi di un rito domenicale tra gli altri; ma siamo ben lontani dal raggiungere l’obiettivo di una fede capace di plasmare la vita, di darle gusto e sapore. Di far sì che possa essere determinante, capace di dare cioè una forma precisa e determinata al nostro vivere. Perché arriva forte e chiaro il segnale che una fede, che sia indifferente e irrilevante, rischia di essere poco più di un accessorio, fatuo e indebitamente esibizionista. Ce lo dice la vita, ce lo dicono le notizie che si moltiplicano, dall’Egitto alla Nigeria, dall’Iraq all’India, dall’Indonesia al Pakistan. Mondi che forse ci paiono lontani anni luce: eppure sono nostri contemporanei, morti a causa della loro fede. Quella stessa fede che rischiamo di vedere intiepidirsi a colpi di fredde spugnature politicamente corrette, intrise di relativismo, nel massiccio intento di rendere innocua la potenza di Cristo. Tutte certezze che un ragazzo malato di cuore riesce a mettere in discussione, più profondamente ancora che nella canzone di De André.
Questa storia porta irrimediabilmente con sé una conferma e un dubbio.
Ho avuto la conferma ufficiale che, alle volte, l’utilizzo più semplice e ingenuo delle moderne tecnologie è il migliore, quello vincente. Internet, con i suoi siti più cliccati (Facebook, Twitter, YouTube) non è (solo!) un ammasso di dati a rischio di violazione della privacy, né una sorta di gigantesca pattumiera mediatica in cui raccogliere il meglio e il peggio dell’umano. Si tratta di strumenti, affidati alle mani di uomini e donne, ma non solo: anche a ragazzi e ragazze del nostro tempo. Ed è vero che non sempre siamo stati capaci di usare questi strumenti in modo adeguato, secondo le loro potenzialità. Ma ci sono eccezioni, splendide eccezioni. Come Ben, che ha saputo accostarsi con estrema consapevolezza a questo media per “affacciarsi” sul mondo, lasciare un segno. Una scia. Una parola molto usata dagli americani per descrivere questi video è “inspiring”: difficile renderlo in italiano in modo adeguato. Il video propone immagini estremamente semplici (la telecamera fissa sul suo volto e una successione di foglietti da sfogliare), ma che traggono – forse – proprio dalla semplicità la loro forza. È impossibile rimanere indifferenti, impossibile non riflettere, di fronte a questo video, in cui un ragazzo, con grande calma e lentezza, racconta la sua storia e ci rende partecipi di esperienze tutt’altro che banali. Perché siamo tanti coinvolti, però? Non tutti abbiamo malformazioni cardiache, né rischiamo di morire. Già! Ma Ben ci ricorda quello che cerchiamo di dimenticare ogni giorno, nell’illusione che questa dimenticanza possa renderci più felici.
E qui si insinua il dubbio. Un dubbio gigantesco, pungente. Fastidioso. Come quei dubbi che hanno acquistato lo spessore di una semi certezza. Forse abbiamo perso qualcosa. E non si tratta di qualcosa di poco conto: è uno dei pezzi più importanti, di quelli che possono cambiare la vita in meglio, quando sono presenti. È la speranza che può portare nel mondo la presenza di Cristo. Cerchiamo dovunque un modo per incanalare sogni, entusiasmi e desideri. Quando parliamo del cristianesimo, citiamo la regola d’oro (presente in altre religioni e culture), parliamo di amore e spesso lo facciamo in modo nebuloso, troppo astratto per essere credibile. Ma sembriamo pressoché dimentichi di un cardine fondamentale del cristianesimo: la Resurrezione, con cui Gesù ci ha mostrato che c’è soluzione alla nostra continua ricerca di pienezza, di senso.
“È l’ignoto che temiamo quando guardiamo la morte e il buio, nient’altro” (Albus Silente in Harry Potter e il Principe Mezzosangue, di J.K. Rowling). Buio e morte come ignoto temibile. Ma se la morte è luminosa, resterà anche ignota a spaventosa? O mitigherà la paura, addolcendo l’ineluttabile passaggio che condanna e salva, al contempo, ogni uomo? Condanna, nel senso che ogni uomo è costretto a farci fronte, perché nessuno è immortale. Salva, perché ci può salvare da tante altre cose. Forse persino dalla noia: mi viene il dubbio che l’uomo non sia fatto proprio “strutturalmente” per vivere chissà quanti anni. E forse proprio Ben avvalora quest’idea: non è questione di vivere a lungo, non è la vita lunga che fa la differenza. È la vita piena. Che è un concetto un po’ diverso dal “carpe diem” tanto in voga e alla moda. È qualcosa di più e di diverso.
Il dubbio penetrante è che non sia un contributo alla nostra serenità il dimenticare che moriremo, anzi: tutto il contrario. È solo un tentativo (vano!) di illudere noi stessi. Gli interrogativi si ripropongono e non è sufficiente rimandare a mai la loro risoluzione.
Fa impressione sentire un ragazzo di diciott’anni parlare della morte, della propria morte. Ma quello che lascia interdetti è la sua serenità, racchiusa nel finale: Credete in Dio?
Ecco. Se questa serenità è il frutto della fede, la terza, amara riflessione che resta è questa: chi davvero ha fede?
*Approfondimenti su questa storia: