Siamo ormai al “giro di boa”: inizia oggi la terza (delle sei settimane) dell’avvento ambrosiano.
La prima lettura si apre con un grido di giubilo, per il rimpatrio degli esuli, che hanno affrontato il deserto e contrasta con il capitolo appena precedente (il 34), nel quale II profeta Isaia esprime un drammatico giudizio contro Edom, il cui castigo è descritto nella morte dei nemici, che si accompagna alla devastazione del paese, invasione di animali selvaggi e di demoni. (cap 34)
Al contrario, la visione del rientro è luminosa, raggiante. L’immagine iniziale è di innegabile potenza: anche il deserto (per antonomasia, terra arida, brulla, deserta, dove non è possibile vedere fiorire nulla) «diventerà un giardino», paragonato ai territori più fertile conosciuti nel Medio Oriente (come il Libano).
Il ritorno in Patria, nella Gerusalemme tanto cara e desiderata, è – insomma – descritta, tramite immagini poetiche (si parli di zoppi intenti a saltare come fossero cervi, di muti che riacquistano il dono della parola, di acque che tornano ad abitare il deserto e di torrenti che si riaffacciano nelle steppe; dove il percorso era impervio, ora è possibile trovare una strada, che potrà essere percorsa in pace e tranquillità, senza temere più nulla da nessuno). Il suggerimento è che avvenga come una sorta di rivoluzione, in cui nulla sarà più come prima.
Come non leggere, in queste immagine così straordinarie, l’invito affinché ciascuno di noi faccia in modo che il tempo offertoci, in questo Avvento diventi il tempo opportuno (kayròs) per una conversione che tocchi nel vivo qualcosa del nostro quotidiano, portandoci a qualche cambiamento, magari piccolo, ma significativo?
Il brano del vangelo di Matteo si colloca in un momento di verifica della sequela nei riguardi del Cristo. Dopo aver raccontato di Gesù che invia gli apostoli per la loro prima missione (cap 10), nei due capitoli successivi capitoli svela le reazioni del mondo attorno a Gesù.
Innanzitutto, troviamo il nuovo rapporto con Giovanni Battista in carcere e la sua crisi di fronte all’operato di Gesù ( Mt 11,1-19, da cui è tratto il brano liturgico); seguono il rifiuto delle città che si trovano sulle sponde del lago (11,20-24) e l’accoglienza dei piccoli (11,25-30) ed infine le controversie con i farisei (12,1-45).
All’inizio, troviamo la domanda che sovrasta senz’altro questa pericope: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».
La domanda di Giovanni Battista è sincera, profonda, coriacea, viscerale. Giovanni battista ha svolto la propria missione: ha annunciato che il Regno di Dio stava arrivando ed ha esortato alla conversione e alla penitenza, per poterlo accogliere. La manifestazione di Gesù, però, pare farsi attendere, o – comunque – esulare dalle aspettative israelite. In attesa di una gloria manifesta, fulgida, sfolgorante, non vede attuarsi le attese e inizia, probabilmente, a dubitare anche del proprio operato.
La risposta di Gesù è proprio eco del brano veterotestamentario, sicuro che il cugino possa essere sufficientemente familiare alla Scrittura Sacra da poter comprendere la citazione che gli pone innanzi i prodigi messianici. Non risponde direttamente, ma confida che che i segni siano abbastanza evidenti da poter essere letti, da chi ha la pazienza, il coraggio e la maestria di buttare lo sguardo oltre l’orizzonte dell’immediato, per scorgere nel presente i semi di un futuro che solo ora sta mettendo i primi germogli.
Anche nel Vangelo, infatti, riprendendo la prima lettura, compare l’immagine del deserto. Giovanni Battista è un fiore, nel deserto: nella desolazione, che viveva il popolo israelita, ha saputo trovare uno spiraglio di luce, attraverso il quale indicare ad ogni uomo la salvezza vicina, persino quando faticava a comprenderne la modalità in cui operava.
Un fiore, nel deserto, è un attimo di sorpresa che ripaga una lunga attesa. Richiede la prontezza di chi sa cogliere il momento presente, con la mente alla Parola di Dio, per interpretare la realtà alla luce dello sguardo di Dio sulla storia. È altissimo, infatti, il rischio di perdersi il momento fondamentale, quello che dà senso ad ogni attesa. L’attimo in cui un fiore sboccia, nel deserto, è imprevedibile: proprio per questo unico e prezioso. Proprio per questo richiede di prestare attenzione ad ogni attimo, perché ogni attimo potrebbe rivelarsi quello decisivo.
Quello che traduce in realtà il senso di ogni nostra attesa.
Rif: letture festive ambrosiane, nella III domenica d’avvento (Anno liturgico A) – Is 35, 1-10; Mt 11, 2-15
Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone
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