Non è il primo incontro con Giorgio e, per chi non lo conoscesse, invito a leggere la precedente intervista, per comprendere meglio il suo percorso evolutivo. Ma, non illudetevi: se c’è una cosa che lo caratterizza e denota in modo particolare, è proprio la capacità di re-inventarsi continuamente. Quindi, se avete letto altri suoi lavori, sicuramente l’ultimo è diverso dal precedente (come anche dal primo). Nonostante ci sia un filo rosso che collega la serie di racconti “Sotto il cielo della Palestina”: l’amore non è mai questione di meriti e può bastare un unico incrocio di sguardi con il Messia-viandante a raddrizzare una vita storta.
1. Trapela prepotente, in questo tuo ultimo lavoro, la domanda profonda sulla ricerca di senso, soprattutto, a seguito di trascorsi dolorosi. Per chi non crede, è possibile trovarvi risposta?
Secondo me, la ricerca di senso prescinde dalla fede. Tutti cerchiamo un senso alla nostra vita, specialmente nei momenti di buio e di dolore, durante i quali questa ricerca diventa più impellente ed irrinunciabile. Da una parte chi ha fede ha un aiuto in più per trovare una risposta, anche se non sempre essa è automatica; dall’altra anche per un non credente c’è sempre la possibilità di individuare un bene significativo per cui valga la pena spendere la vita. Talora, sul piano umano, esso è lo stesso per cui vive il credente, anche se le ragioni che conducono l’uno e l’altro sono differenti. Ad esempio, anche un ateo può fare esperienza del fatto che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”, anche se non lo vive per il fatto che a insegnarlo sia stato Gesù. Sulla base di questo, è possibile scoprire un senso nella propria esistenza che ha in sé una dignità, pur mancando della prospettiva eterna che propone la fede. Come dice Edith Stein, “Dio è verità e chi cerca la verità, cerca Dio, che lo sappia o no”.
2. Rispetto a Levi, in cui la guarigione (almeno quella del protagonista) è fisica, nessuno qui torna in vita, letteralmente. Ciò che accade è più simile a una guarigione interiore. Giairo, “morto dentro” a causa della disperazione, in cui era scivolato in seguito ad un lutto, ritrova la propria vita, nell’incontro col Cristo. In questo testo arrivi, infatti, a narrare un episodio limite, come la violenza più estrema, cieca ed odiosa: quella causata dalla noia. Si può oltrepassare un male subito per motivi così futili, senza rimanerne schiacciati, come accade a Giairo?
Tutti e tre i romanzi della serie sono caratterizzati da un ritorno alla Vita, che, del resto, è un tratto tipicamente cristiano. La Resurrezione, infatti, non riguarda – soltanto – l’aldilà: chi crede in Cristo può risorgere già oggi, da subito. Il dolore, la malattia, i rapporti che si spezzano sono tutti esempi di piccole e grandi “morti” che costellano la vita di ciascuno e dalle quali è possibile risorgere, a patto di credere che in esse vi sia nascosta sempre un’opportunità nuova proprio lì dove non vogliamo guardare. Nello specifico, la “morte” di Giairo è data dal dolore per il male subito: il suo desiderio di vendetta lo rende schiavo, tenendo il suo sguardo fisso sul male per ciò che ha perso, in modo da restarvi legato come a un macigno sul fondo del mare. Solo il perdono può liberare da un simile peso. Ed è proprio l’intervento di Gesù che rende capace Giairo di uscire da quell’abisso, perdonando innanzitutto sé stesso, e, quindi, rendendolo capace di perdonare. Quello che Dio fa nella vita di una persona, infatti, non riguarda mai solo lei, ma si riversa sempre anche su tutte le persone che le stanno intorno.
3. “Ognuno ha i propri demoni” dirà Giairo, sul finale. Quanto è importante esserne consapevoli, per affrontarli, senza fuggirne all’infinito?
Tutto il male che subiamo ci perseguita finché non lo affrontiamo: sono questi i demoni personali che ognuno si porta dentro. Che il tempo sani è solo un’illusione; in realtà, se non c’è un momento in cui guardiamo in faccia quanto ci è stato fatto, e non gli diamo voce, il tempo servirà solo a seppellire più a fondo il dolore, impedendoci di sentirlo. Ma non è detto che ciò che non sentiamo più non esista. La maggior parte di noi fugge da coloro che gli hanno fatto del male, soprattutto quando sono persone care, nella speranza di non soffrire più, ma questo è un inganno. Scappiamo dal conflitto come un bambino con una sbucciatura sanguinante scappa dalla mamma con l’alcool disinfettante, per paura del bruciore. Curare una ferita brucia, ma se non bruceremo oggi di questo dolore necessario, quella ferita finirà con l’infettarsi sempre di più ammalando l’intero corpo. Così è con l’anima. È impossibile evitare la sofferenza, perché essa fa parte di ogni vita, e di ogni rapporto di affetto. Coloro che più amiamo sono coloro che più ci faranno soffrire. Perciò, posto che prima o poi chi entra in relazione profonda si fa male, la nostra speranza risiede nella capacità di ammettere quel male, sia ricevuto che causato, per potere chiedere o dare il perdono. Finché siamo capaci di ammettere gli sbagli, saremo capaci di ricevere il perdono. Così come solo essendo capaci di dire, “mi hai fatto male”, possiamo anche aggiungere: “ma io ti perdono”. Solo così, perdonato, il male non si trasforma in un demone che ci chiude all’altro, nel timore di esserne feriti, impedendoci di vedere la Bellezza che invece può venire dall’incontro. È proprio quest’ultimo l’obiettivo di Satana: la disperazione che isola nel proprio dolore, impedendo a Dio di sanare le tue ferite attraverso la vicinanza di coloro che ti amano.
4. Protagonista assoluta di questo tuo romanzo è l’amicizia fraterna tra i due protagonisti, fino al coraggio estremo del sacrificio di uno dei due per non lasciare solo l’altro. Giairo appare, innanzitutto a se stesso, il più egoista tra i due, per non essere stato capace di accorgersi del dono che l’amico rappresentava per lui. Cosa pensi al riguardo, sia a livello generale che personale?
Quando ho scritto la prima stesura di Giairo stavo vivendo in prima persona un importante rapporto di amicizia (che tutt’ora prosegue), nel quale ho sperimentato per la prima volta un amore come quello che Giairo riceve da Nathanael: quello di una persona che, nonostante le mie asprezze, ha saputo accogliermi. Siamo passati in mezzo a momenti impegnativi, soprattutto grazie a lui e alla sua pazienza. In questo processo di crescita essere passati dalla Verità sulle mie ferite legate all’identità, è stato fondamentale per non soccombere sotto i meccanismi inconsci e malsani che quelle ferite attuavano fra di noi. Con peccato di presunzione, allora credevo di somigliare anche io a Nathanael, perché per quell’amico avrei fatto qualsiasi cosa. Tuttavia quella apparente generosità non era davvero gratuita. Ci sono voluti anni perché lo diventasse. Oggi so che la mia storia mi aveva portato istintivamente ad essere più simile a Giairo, ma ogni giorno mi vengono date nuove opportunità per imparare ad amare come Nathanael. E se guardo indietro mi rendo conto che in questo un po’ di strada l’ho fatta.
5. Si tratta del secondo libro della serie “Sotto il cielo della Palestina”: hai apportato modifiche all’idea originaria, durante la stesura?
Dopo dieci anni, Giairo ha avuto bisogno di rimaneggiamenti più corposi, rispetto a Levi, essendo in realtà stato scritto prima: la scrittura andava ripulita di molte ingenuità date dall’inesperienza e anche il racconto è stato integrato con alcuni elementi che però non ne hanno intaccato la trama né il significato. Le parti più nuove riguardano in particolare i discorsi di Gesù, nettamente ampliati, e gli interventi degli apostoli, che appaiono solo in questo racconto. Questi ultimi sono colti in momenti di normalità che fanno da contorno all’episodio evangelico e che è facile supporre facessero parte della loro vita quotidiana, anche se i vangeli per ragioni di economia non ne parlano: scherzano, si prendono in giro, litigano… soprattutto guardano a quest’uomo che li guida con una ammirazione ingenua dalla quale si intuisce (come dal Vangelo stesso) che non hanno davvero la ben che minima idea di Chi Egli sia davvero. Riprendere in mano il testo dopo tanto tempo mi ha anche permesso di delinearne meglio i personaggi, alla luce delle esperienze personali fatte nel frattempo. In particolari due amicizie molto significative di cui una molto recente mi hanno mostrato in maniera più chiara il significato profondo di questa storia, di cui nemmeno io ero del tutto cosciente allora: Giairo rappresenta la mia speranza di affrontare la vita insieme, spalleggiati sempre da qualcuno che nella sua imperfezione sia tramite e segno di quella Presenza perfetta che sola dà significato alla vita: l’amore più grande cui tutti siamo chiamati, e che è immagine di Dio. Un’amicizia che sia segno per gli altri, nel segno di una missione: dire al mondo quello che Dio ha fatto per noi.
Sia GIAIRO che LEVI sono ordinabili in tutte le librerie del circuito Mondadori e Feltrinelli sotto l’etichetta “Youcanprint”, oppure si possono acquistare su Amazon o Ibs, sia in formato cartaceo che digitale. I libri di Giorgio Ponte sono inoltre disponibili su iTunes e Kobo, come ebook.
Palermitano, trentatré anni, laureato in Comunicazione Sociale all’Università Salesiana, titolare di un Master in Editoria presso l’istituto Comunika, per quattro anni tutor presso il Corso di Alta formazione dell’Università Cattolica di Milano “Il piacere della Scrittura”, Giorgio Ponte ha fatto diversi lavori nel commercio e ha insegnato religione alle scuole Medie fino al 2015. Il suo primo romanzo “Io sto con Marta!” è partito come successo del selfpublishing su Amazon, con seimila download in tre mesi e quattromila copie cartacee nel primo anno dalla sua uscita con Mondadori (Novembre 2014). Dal dicembre 2016 è online “LEVI” il primo capitolo della sua nuova trilogia autoprodotta a tema evangelico “Sotto il Cielo della Palestina”, seguita a distanza di un anno da “GIAIRO”.
Parallelamente al suo lavoro di scrittore, dal 13 Maggio 2015 Ponte si è esposto, raccontando la sua storia di persona con attrazione per lo stesso sesso in difesa della famiglia naturale e della Chiesa. Da allora gira l’Italia per tenere conferenze sui temi della fede e della vocazione e permettere a chi vive la sua condizione di leggere la propria storia in un’ottica diversa da quella comune. Da ottobre ha aperto il blog “Liberi di Amare” per raccontare queste e altre storie di Speranza.