A tutti coloro che s’avvicinano per la prima volta al testo biblico, ma anche spesso agli esegeti durante il loro corso di studi, quando è la volta di imbattersi nei racconti della creazione si propone sempre questa premessa: “badate bene, sono racconti che vanno collocati nella mitologia”. Premessa giusta e doverosa, accompagnata dalla necessaria contestualizzazione. Tralasciarla e leggere tutto alla lettera sarebbe un errore bello e buono, nonché un rischio pericoloso.
Obiezioni perplesse, espressioni d’orrore, volti increduli: tutti presenti all’appello o manca ancora qualcuno?
Nel sentire moderno il racconto mitico è stato ferocemente declassato a semplice e fantasiosa invenzione, talvolta parecchio bizzarra, quasi una favola arcaica. Il sapere attuale spesso non ha avuto pietà alcuna e lo ha defenestrato senza troppe cerimonie, regalandogli una posizione sociale simile a quella della povera Cenerentola. Qualcosa da leggere da bambini, da ricordare da grandi, da lasciare in un angolino quando è il momento della vera conoscenza, a meno che non si tratti di un quiz televisivo.
Ma come Cenerentola seppe avere la propria rivincita, così anche il sapere mitologico – per chi sa farne un discernimento serio, con cuore e mente aperta – può averne una tutta sua. L’antichità racchiuse infatti in esso quel nocciolo di sapere che più tardi sarebbe sbocciato come filosofia e come teologia. Un riscatto coi fiocchi, non c’è che dire.
I racconti della Creazione non sono da meno, nocciolo compreso. L’idillio tra uomo e creato, quando tutto era pace, sarebbe stato consegnato ai secoli con evidente nostalgia, divenendo non solo memoria di un passato perduto, ma anche promessa di un futuro, un bilico funambolico tra il già ed il non ancora. Il sospiro appassionato di Isaia, nel descrivere la sua era messianica, ha tutto il sapore di rimpianto proteso verso un avvenire che scalpita per poter essere.
Quel già e non ancora ogni tanto fa capolino tra le notizie dal mondo ed è come una porta spalancata su quel che è stato e quel che sarà. Un’apertura che giova non poco, regala letteralmente un ricambio d’aria, una boccata di freschezza condita con un sorriso e qualche pizzico di speranza.
 
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Il pinguino della Patagonia Dindim è solo l’ultimo di una lunga serie di piccoli idilli tra uomo e creato, la conferma che la ri-conoscenza non è una proprietà esclusiva dell’essere umano, soprattutto perché vi sono attimi in cui dall’uomo è tranquillamente riposta nel dimenticatoio, non solo verso i suoi simili, ma anche verso quella stessa Misericordia che mai viene meno al patto di alleanza siglato una volta per tutte su di una croce. La parabola del Padre Misericordioso ne è uno stupendo esempio. E non tiene nemmeno conto, la ri-conoscenza, delle distanze. Ottomila chilometri per ricordare la gratuità di una cura amorevole che ha restituito il piccolo pinguino alla vita: sapremmo fare altrettanto, con le nostre sole forze? La domanda è puramente retorica, perché una risposta positiva c’è sempre dietro l’angolo, in attesa di fare capolino.
Dindim, pinguino riconoscente.
Hachiko, cane splendidamente fedele oltre la morte.
Sirga, leonessa abbandonata dal branco e salvata da due volontari, la quale non si fa scrupolo a dispensare ad essi felini abbracci e richiedere carezze come un gattino domestico.
O ancora, e qui facciamo un bel tuffo nel passato, i numerosi racconti di salvataggi di naufraghi ad opera di branchi di delfini, nel mare della Grecia classica.
È il sussulto, attraverso i secoli, dell’idillio della creazione, di quella gratuità d’amore che abbraccia uomo e creato. È un già, regalato, elargito con misericordia, ma anche da alcuni uomini conquistato con sincera dedizione e profondo affetto. È un qui e adesso che mi regala un pizzico di nostalgia per quel passato perduto, ma mi riempie di speranza per un futuro promesso.
Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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