Lo stridio dei gabbiani nel cielo di Piazza San Pietro. Lo stesso stridio che, a mezzodì e sera, intonano tra le navate di ferro-cemento della nostra galera di Padova: «La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo (…) Mio destino è vivere balenando in burrasca» (V. Cardarelli). Nella Via Crucis di venerdì, i gabbiani erano un promemoria: quella di Cristo è l’alta definizione delle passioni degli uomini. Il maiuscolo e il minuscolo della sofferenza che tutti accomuna. La piazza spettrale: un vuoto potente l’abitava, simbolico, asciutto. Le storie – tutte storie provenienti da quella terra straniera ch’è la galera – vibravano, quasi fino a spaventare l’ombra di quella piazza. Aggirare l’Obelisco, con l’unico attrezzo della Croce, è stato come l’esplorazione di una terra sconosciuta, di un tempo mai vissuto. Non tanto anime vaganti attorno ad un vuoto, quanto esploratori in cerca di una strada da aprire: “Come faremo ad uscirne fuori, don, da questa pandemia” si chiede. Al buio di quella domanda, si reagiva al ritmo del racconto: «I^ stazione, II^, III^ stazione». Un passo, una storia, un’orazione: arresto, stop, ripartenza. Lo specchio fedele delle vite nascoste in tutti quei racconti, tribolati da vivere e mettere per iscritto: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Is 21,11).
Dopo il cerchio attorno all’obelisco – “Mi sembra di essere una trottola!” – la segnaletica di una direzione: sul fondo, alla base della Chiesa delle chiese, uno scranno. Sullo scranno c’è Pietro: davanti a lui il Crocifisso di San Marcellino. Li ho guardati ad oltranza, il loro è stato un eterno faccia a faccia: due passioni a confronto. Quella di Cristo, la prima: quella di Pietro, ch’è la somma di quella di tutti i suoi fratelli, la seconda. I gabbiani, i rintocchi delle campane, la memoria di dov’eravamo giunti: «VI^, VII^, VIII^ stazione». Nel mentre, una luce appariva sotto il cielo che somigliava ad una trapunta di stelle: “Vedi – mi disse un giorno il Papa -: la vita reale è molto più bella della vita di fantasia”. Il reale di chi, nella vita, è andato fuori strada, di chi soccorre gli sbandati; di coloro che, perduto l’orientamento, tornano ad instradarsi aiutati dalla giustizia. La piazza, nel frattempo, si popolava di volti, memorie, suggestioni. Di pensieri mai nemmeno calcolati: «Pazzesca la storia di quel prete innocente. Vedi com’è: finchè il male non ti guarda, dici: non mi riguarda» mi ha scritto un ghigliottinaio dopo aver ascoltato quella stazione fatta di sospetti, faldoni e chiodi. Tutto meno chiaro.
L’ultima stazione: «XIV^ stazione». La croce di legno è deposta nelle mani di Pietro: gli esploratori tutti attorno a lui, come pescatori rientrati al porto dopo il sopralluogo del meriggio. Nel vuoto di quel paesaggio, una strada s’era aperta: quella vecchia mulattiera chiamata Calvario. Conduce verso l’alto, è slabbrata e piena di buche: è l’unica, però, a portare fuori da questo pianeta disabitato, tetro e irritante ch’è il nulla. «Vi benedica Dio Onnipotente, ch’è Padre, Figlio, Spirito Santo», ha chiuso il Papa. Come dire: la pace è finita, andiamo tutti in guerra. A fare la guerra alla guerra della morte: «Beati i costruttori di pace». Mai celebrata una Via Crucis così: pareva davvero d’attraversare l’Odio desiderando l’Amore.
(da La Stampa, 12 aprile 2020)