Succede di nuovo. Questa volta, come ogni altra volta, è una storia che si ripete.
Per l’ennesima volta, si cerca una gogna, alla quale condannare un colpevole che dovrebbe essere presunto innocente. Quanto meno, fino a prova contraria.
Invece di chiedere all’accusa di motivare perché uno dovrebbe essere ritenuto colpevole (questa dovrebbe essere la procedura, quanto meno dalla Magna charta in poi, tra i paesi civilizzati!), è chiesto alla difesa di motivare perché l’imputato non dovrebbe essere ritenuto colpevole: significa, in pratica, ritenere una persona colpevole, fino a che non è in grado di dimostrare il contrario. L’esatto opposto di quello che la Legge dovrebbe garantire al cittadino.
Di fronte a tanti che, dopo essere stati riconosciuti colpevoli, non sono chiamati a scontare la giusta condanna che spetta loro e che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo, specie a fronte della constatazione che, purtroppo, in tante carceri a regnare è il sovraffollamento e la mancanza di dignità, mentre latitano veri programmi di recupero della persona, in vista di un reinserimento nella società civile e nel mondo del lavoro) servire a “costruire” una persona nuova e migliore (che, con responsabilità e maggiore consapevolezza di sé, accetti di giocarsi nuovamente nel proprio contesto, ma in modo diverso), troviamo persone che, invece, sono consegnate, tramite – purtroppo! – la complicità dei media, al pubblico ludibrio, prima ancora che il processo sia stato celebrato. Anomalie di una giustizia fai – da – te, nell’era di internet e dei mezzi di comunicazione di massa!
Stavolta, si tratta della mamma di Loris, il bambino tristemente noto alle cronache perché, dopo essere segnalato tra le persone scomparse da parte della madre, è stato ritrovato in un canalone, ucciso per strangolamento. Si moltiplicano, nei suoi confronti, analisi “a posteriori” dei suoi movimenti, delle sue abitudini, del suo passato, per avvalorare la tesi della sua colpevolezza. Non mancano, poi, i commenti da “psicologia da bar” riguardanti la sua reazione alla morte del figlio, sottolineandone debolezza, fragilità, contraddizioni, stordimento. Quasi a dimenticarsi che, innocente o colpevole, resta comunque una madre che ha perso un figlio: il dolore più grande che chiunque possa immaginare.
Sì, lo so, è umano. Posso capirlo. Di fronte alla sofferenza di un bambino, a volte lasciamo uscire i nostri istinti più protettivi, ma anche primordiali, che ben poco hanno di umano e di nobile.
Io non so nulla di più di quanto si può sapere dai telegiornali o dalle dichiarazioni che (purtroppo) trapelano. Dico purtroppo perché c’è una riservatezza, che dovrebbe far parte della prassi della Magistratura e che, invece, è sistematicamente disattesa. A svantaggio di tutti.
Capisco il desiderio di verità, che è al buona intenzione che anima anche i gesti più duri e feroci nei confronti di questa donna. Ma i processi “a priori” non fanno bene a chi è in cerca di verità, quella autentica. Perché la verità è e non può che essere una sola. Sia le tensioni che l’indirizzamento delle indagini verso un’unica pista (precludendo tutte le altre) rischia di essere un ottimo metodo per ottenere due risultati che nessuno vuole veramente: fallire nella ricerca della verità e trovare un colpevole, che però non è il colpevole.
Trovare un colpevole può sembrare rassicurante. Ma se la persona individuata non è effettivamente il colpevole, cosa abbiamo ottenuto, a parte la conclusione di quella “caccia alle streghe” (che, a quanto pare, è così insista in noi che, dopo secoli, ancora non riusciamo a farne a meno)? Nulla, direi, sempre che non consideriamo l’illusione – di un momento – di aver posto fine all’incubo di un mostro senza nome e volto e avergliene dato uno (fittizio, però!) un risultato che ci soddisfi. E, se siamo davvero onesti con noi stessi, ci rendiamo subito conto di come non sia possibile accontentarci di un’illusione, spacciandola per la verità.
Fallire nella ricerca della verità è poi la questione più grave, per il fatto che si tratta dell’anelito più profondo, che sottende ad ogni processo, pur non essendone (esplicitamente) il motivo principale. Ciò che muove verso la ricerca del colpevole, se non c’è desiderio di vendetta, è la volontà di capire quanto è successo, tramite la conoscenza della verità intorno ai fatti. È chiaro, infatti, che la conoscenza della verità è prerogativa imprescindibile, senza la quale risulta pressoché impossibile qualunque sforzo, anche minimo, di comprensione del reale.
Se andiamo a fondo nella questione, capiamo quanto sia necessario andare oltre i sentimentalismi, oltre le scelte più facili, oltre le reazioni impulsive, nel tentativo di andare più in là e avvicinarci, quanto più possibile, al raggiungimento degli obiettivi che si pone qualunque processo, che sono oltremodo ambiziosi ed impegnativi: raggiungere la verità, oltre ogni ragionevole, su chi ha commesso una colpa e sul motivo che l’ha spinto a farlo.
La Verità è un propulsore incredibile, molto più forte del desiderio di vendetta, di rivalsa: se il secondo può garantire un certo senso di onnipotenza assolutamente temporaneo, il primo potrebbe essere un passo verso la comprensione di quell’abisso che è l’animo umano.
Già, solo un piccolo passo, perché capire il male è impresa ardua, seconda solo alla titanica ma necessaria consapevolezza della sua presenza: qualcosa che non è scontato, eppure è un traguardo necessario, anche se sembra assurdo, per raggiungere la serenità.
Bisogna fare i conti col male, accettare che esiste e – è questa l’azione più eroica – rendersi conto che non è fuori da noi, ma dentro di noi, ciascuno di noi (anche il più santo e perfetto) che alberga potenzialmente quel male che, specie in contesti maggiormente idonei, esplode in tutta la sua violenza. Infine, poi, per non soccombere alla tentazione di credere il male una forza impetuosa ed ineluttabile, dovremmo imparare a vedere quei germogli di bene che si fanno spazio tra polvere e cemento, nel nostro quotidiano, a testimonianza che il bene non va in vacanza e il male non è fatto per avere l’ultima parola, ma può essere, suo malgrado, occasione propizia per trarre, da esso, nuovo bene, da mettere in circolo nonostante tutto.
Non soffochiamo il desiderio di verità e quell’umanissimo istinto di protezione che ci fa provare tenerezza per ogni innocente indifeso che subisce soprusi; ma non dimentichiamoci che l’attesa di verità e di giustizia, non è buonismo a poco prezzo, ma richiesta di autenticità nella ricerca di quell’agognata Verità, che non può essere barattata con nessun fantoccio che ne faccia le veci.
Ecco perché garantire una presunzione d’innocenza, fino a prova contraria, è garanzia di civiltà, mentre il contrario si rivela una sconfitta per tutti!
Link utili:
Ansa, 14 dicembre 2014
Il fatto quotidiano, 16 dicembre 2014