La prigione è un quadro a tinte forti: i colori sono cupi, i tratteggi sono aguzzi, l’evocazione è da brividi. Tutte le prigioni si assomigliano: ferro, cemento e tanta dimenticanza. Le costruiscono ai bordi esterni della città perchè disturbino poco o nulla la frenesia di chi non vuol vederle. Di chi, costeggiandole, pensa sempre che quello rimarrà un paese per altri, terra di nessuno, una possibilità che mai ci riguarderà. Nessuno, nell’organizzare i suoi sogni, mette mai in conto la galera: calcola, invece, la possibilità dell’ospedale, del fallimento, anche del cimitero. La galera, però, pochi la conteggiano. Quando capiterà, se capiterà, il contraccolpo sarà doppio: la sofferenza, con l’aggravante dell’inaspettato. Del non calcolato.
“E’ finito in carcere! E’ finito all’ospedale!” sentiamo di frequente. Per chi quei mondi li abita, la frase funziona meglio rovesciata: “Ha iniziato in ospedale, ha iniziato in carcere!” La vita, di quasi tutti, inizia all’ospedale: le doglie, l’ostetrica, il parto. Alcuni, poi, dopo essere nati si dimenticano il perchè sono nati: iniziano a morire adagio, sbattendo, sbandando, deragliando. Costoro, caduti per terra, (re)iniziano in carcere, nel luogo del grande-stop: l’arresto, le cancellate di ferro, le notti pensierose. L’inizio e la fine non sono mai uno spazio fisico, restano una possibilità: c’è chi l’accoglie, chi la sbeffeggia, chi la tradisce. Ci vogliono anni per costruire la fiducia, pochi secondi per romperla, un’eternità per ripararla: è la vita, che funziona uguale dentro e fuori dalle mura di una patria galera.
La galera è la terra del male: “Cosa ci sarà da imparare là dentro?” diranno in tanti. Il bello è proprio il male: denudarlo, guardando in faccia, studiarne la sua fisionomia. Per poi additarlo come cattivo-esempio da non seguire. Nel male, poi, sono nascoste storie di uomini e di donne che il male ha sequestrato: non sono il male. Vi hanno appartenuto, portano ancora le cicatrici, hanno massi pesanti accatastati come marmi nelle loro coscienze. Che li riconoscano è ottimo, che li raccontino è terapeutico, che qualcuno li ascolti è un’occasione: “E’ valsa la pena – mi ha scritto un signore dopo essere venuto a trovarci – La fiducia è un capitale che si può perdere con una singola giocata”. Ha capito al volo il gioco.
E’ anche altro la fiducia: è lasciar perdere di conoscere tutti i dettagli prima di aprire il cuore. Prima di aprire la mente. Ecco perchè, dopo la bella domenica di Pentecoste di quest’anno, la parrocchia del carcere “Due Palazzi” ritorna a sporgere una mano, ad aprire la porta (i cancelli) di casa. Per tre domeniche – il 9 febbraio (posti già esauriti), il 26 aprile, il 14 giugno 2020 – l’invito è all’ingresso in carcere, non a rifuggire dal carcere. In una domenica (dalle 8.00 alle 16.00) il racconto, il confronto, la celebrazione dell’eucaristia, il pranzo seduti allo stesso tavolo: non esiste nulla al mondo di più rivoluzionario della ferialità condivisa assieme.
S’inizia e si finisce nel medesimo luogo: laddove si decide d’iniziare, di finire.
don Marco Pozza
parroco del carcere “Due Palazzi” (PD)
(da La difesa del popolo, 8 dicembre 2019)