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Il lunedì mattina, alla prima ora di lezione, il mondo si divide in due categorie. Chi volge uno sconsolato pensiero al proprio letto e alla sveglia suonata sempre troppo presto e chi, invece, zompetta festante e fa a gara con i compagni per arrivare primo in classe.
Sono proprio questi ultimi che sento sciamare lungo i corridoi. Hanno già un’energia tale che, se si potesse incanalarla in qualche modo, soddisferebbe in cinque minuti il fabbisogno dell’intero pianeta per i secoli a venire. Nemmeno il tempo di varcare la soglia dell’aula, che la sfilata ha subito inizio.
“Ti piace il mio nuovo cerchietto?” – “Guarda le scarpe con le lucine!” – “Maestra, posso raccontarti tutto quello che ho fatto nel fine settimana?” (ok, ma è una richiesta o una minaccia?) Sono così investita da una miriade di telecronache e aneddoti, una quotidianità che per noi adulti non è nulla di che, per loro è invece ancora fonte di meraviglia e sorrisi larghi tanto così.
“Io ho l’astuccio nuovo!” è la dichiarazione che all’improvviso zittisce ogni voce e catalizza l’attenzione. Degli archeologi che portano alla luce preziosi reperti di una civiltà millenaria non avranno mai la stessa trepidazione di venti alunni che osservano l’apertura dello zaino e l’estrazione del nuovo tesoro. C’è proprio tutto tutto, tirato a lucido: penne, matite, colori, pennarelli, belli integri, ordinati, in scalpitante attesa di poter entrare in azione. Immaginate quindi la loro delusione, quando la loro proprietaria, al momento dell’attività, elemosina colori a destra e a manca.
“Ma io voglio che restino nuovi,” prova a spiegare. “Se li uso, poi finiscono.”
Eccola lì, la metafora della vita.
Quella frase mi richiama alla memoria una ragazzina, poco più che adolescente, che un giorno si comprò con i propri risparmi un vestito nuovo, rosso fiammante. Sarà adatto per le occasioni speciali, aveva pensato. Quelle vennero, ma la ragazzina non le seppe riconoscere: per questa no, è troppo elegante, per quest’altra no, è troppo poco elegante… Il tempo passò ed il vestito rosso rimase appeso e quasi inutilizzato. Quando divenne troppo piccolo, la occhieggiò severo dall’alto della propria gruccia, sembrava che le dicesse: che senso ha lasciare ad ammuffire in un armadio ciò che ci rende felici? Quel che ci dà gioia dovrebbe essere vissuto, non è mica scatolame da accumulare in dispensa. Fu regalato a qualcuno che non s’impose nessun “dopo”, valorizzandolo a dovere.
Tante, troppe volte, nel nostro cammino siamo così concentrati a fissare il panorama in lontananza, in cerca di qualcosa di speciale, che non ci accorgiamo del fiore che sboccia proprio sotto il nostro naso. Tante, troppe volte, aspettiamo l’occasione particolare, quella super, quella perfetta dei nostri sogni, che finiamo per sminuire o non vedere quelle che abbiamo a portata di mano. E nel frattempo la vita scorre veloce.
Per paura di sgualcire quel barlume di felicità pronto da indossare, preferiamo lasciarlo in un angolino, tutto bello, pulito e stirato. Ma a che serve se non viene mai usato?
Prima o poi arriverà il momento giusto, pensiamo – e speriamo – e intanto tramutiamo le attese in barattoli a lunga conservazione, come quelli di cui facciamo scorta per le emergenze. Ma un disegno colorato, un caldo abbraccio, un attimo spensierato con qualcuno a cui vogliamo bene non sono beni a lunga scadenza. Sono gioie da vivere qui ed ora, perché è il solo modo che abbiamo, affinché il presente s’imprima nella tela del nostro vissuto e dipinga il capolavoro che siamo.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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