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Il Vangelo di questa domenica pone sotto i riflettori una figura che, facendo di tutto per non essere notato, ha finito invece con il guadagnarsi il palcoscenico della storia della liturgia, dal momento che la liturgia cattolica ha preso spunto da lui:

«Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8)

Si premura anche di spiegare – e, quasi, scusare – l’origine di tale pensiero:«Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa» (Mt 8, 9). Probabilmente, non conosce nulla dell’attesa messianica del popolo d’Israele. Però, è venuto a conoscenza di questo guaritore ebreo e ha riposto in lui la sua fiducia e probabilmente la sua speranza di poter guarire il suo servo, che è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente. (Mt 8,5 )
Stupisce ancora di più la risposta del centurione, se pensiamo quale sia la reazione del Cristo alla notizia.

«Verrò e lo guarirò» (Mt 8,7)

Una sollecitudine che non è affatto scontata, visto – al contrario – quanto il Nazareno sia ricalcitrante nel compiere miracoli (pensiamo, ad esempio, quanto se lo sia dovuto “sudare” la donna cananea). È Cristo stesso, del resto, il primo ad accorgersi della straordinarietà di quella risposta: («In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!»).
Ritorna, in questo punto, un ulteriore parallelismo con la donna cananea, perché, accontentando la richiesta del militare, anche a quest’ultimo concede un miracolo “a distanza”. Gesù si lascia convincere dal centurione: non si reca nella sua casa, eppure ne guarisce il servo, come da supplica ricevuta.

L’episodio evangelico ci porta alla considerazione dell’Apostolo, nella Lettera ai Romani:

Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso. Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. (Rm 10,11)

Il cristianesimo è riuscito a scardinare tanti concetti che, precedentemente, erano radicati nelle convinzioni delle persone. Gesù Cristo ha saputo lasciarsi sorprendere, scombinare i piani dalle persone che ha incontrato lungo il suo cammino. Tanti popoli hanno avuto divinità nazionali ed anche i popoli caratterizzati da religioni politeiste tendevano ad avere almeno un dio che fosse sentito come “nazionale”. È in questo solco che, almeno inizialmente, si inserisce il monoteismo del popolo d’Israele: Jahvè era il dio di quel popolo. È Gesù Cristo che fa dei due un popolo solo (Ef 2,14) e dona al cristianesimo quell’aspirazione inevitabilmente ed irrinunciabilmente universale, che gli è propria. Se Cristo è morto per portare la salvezza a tutti, anche ai pagani che non fanno parte del popolo eletto, chi può fare distinzioni o “graduatorie”?
Nel brano evangelico di oggi, un pagano, un militare, un uomo d’azione, che, a primo impatto, sembra non poter insegnare nulla di spirituale, riesce, al contrario, proprio dalla sua prospettiva, a darci esempio concreto di quella fede che è abbandono fiducioso, nelle mani di Dio. È fiducia ben-riposta, perché, come dice san Paolo, sa in chi ha posto la sua fiducia (2Tim 1, 12): sulla base di questo, trova il coraggio di riconoscersi bisognoso di aiuto, perché il suo potere (politico, militare e sociale) non può nulla di fronte ai morsi del Male.
Sarebbe bello, quindi, che anche noi, come il centurione, quando magari non sappiamo cosa dire, troviamo il coraggio di dire, di fronte a Gesù-Eucaristia, che si dona a noi: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola ed io sarà guarito». Perché solo i malati guariscono: risulta quindi indispensabile ammettere – innanzitutto a noi stessi – il desiderio di accogliere Cristo sotto il nostro tetto, perché siamo noi i primi ad essere bisognosi. Invochiamo la Sua presenza, accanto a noi: al di là dei nostri meriti personali; perché sappiamo che i nostri meriti sono poca cosa, ma, soprattutto, perché l’amore non è questione di meriti, mai (Giorgio Ponte). Anzi: fiduciosi, piuttosto, che Egli sappia vedere semi di bene, anche dove noi non percepiamo possibilità di futuro al nostro impegno.

Rif: Letture festive ambrosiane, nella V Domenica dopo l’Epifania, Anno C (Ez 37, 21-26; Sal 32; Rm 10,9-13; Mt 8,5-13)


Fonte immagine: Premierchristianity

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