Ancora oggi, in certe case, è il conto alla rovescia più atteso di tutto l’anno solare: sono i nove giorni che anticipano il grande giorno del Natale. Giorni non-solo-giorni: giorni che sono finestre da aprire nel calendario appeso, cioccolatini che appaiono sotto la numerazione, statue da aggiungere – una al giorno – nel presepe. Ciò che è essenziale è che siano sempre in numero di nove: dal nove allo zero, dal 16 dicembre al 24 dicembre. È la grande tradizione popolare della Novena di Natale. Non è una preghiera ufficiale della Chiesa, bensì una pratica popolare la cui origine risale al 1720 quando, in una casa di missionari torinesi, s’inventò per la prima volta questo modo di prepararsi al Natale. Sono preghiere che s’innalzano senza alcuna richiesta di aiuto, orazioni senza interesse: «Non pregare quando piove – scriveva S. Pauge – se non preghi anche quando il sole splende». L’unico interesse, a pensarci bene, è d’arrivare preparati al Natale.
Messe per iscritto da gente innamorata-pazza del lato umano del Cristo, a stupire, ancora oggi, è la loro semplicità: sono il festival delle metafore, dipinte con una dolcezza impareggiabile. Dicono, invitano a dire, concetti così semplici d’apparire persino banali: ispirandosi al profeta Isaia, si avvisa che Gesù verrà come luce e rugiada, apparirà come dolcezza e novità. Il re potente s’affaccerà sul mondo come un bambino, quando crescerà diventerà un signore giusto. Chi ideò questa strana forma di preghiera nel XVIII secolo, conosceva a menadito il funzionamento della grammatica del cuore: perché certi incontri siano gustosi, è necessaria la stagione dell’attesa. Alcuni incontri accadranno anche senza che l’uomo li attenda: è l’attesa, però, a donare loro il gusto. Il sapore di ciò che pare essere materia di amicizia-bambina. La novena è una storia di volpi e di principi da addomesticare: «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità – annotava Antoine de Saint-Exupéry – Quando saranno le quattro, comincerò ad agitarmi e ad inquietarmi: scoprirò il prezzo della felicità». “Fare-la-novena” – è così che dicono ancora i nonni – appartiene all’ambito del “fare”: è un verbo di manualità, di progettazione, di costruzione. A Natale il cuore, sopratutto il cuore dei bambini, è uno spettacolo in-diretta di cosa sia il desiderio dell’attesa: tutto il mondo è appeso ai loro occhi mentre, incantati, fissano sotto l’albero un pacco, sull’albero una luce, nel presepe una culla-vuota. Tutto è ancora in incognita, i lavori sono in corso: tutto, però, inizia ad accendersi dentro il cuore-bambino.
Sono i nove giorni con più alta tensione dell’anno. Il loro destino è quello di abitare nel mezzo: tra chi cerca di anestetizzare il desiderio del Natale facendoti gli auguri già ai primi di dicembre; e chi, al Natale, t’accompagna lentamente, di giorno in giorno. “Desiderare” è verbo-natalizio, appartiene al casato dell’attesa. Il che, nell’epoca del tutto-e-subito, appare fastidiosa stonatura: “Perché stare in attesa per giorni di ciò che potrei ottenere subito?” – rinfaccia la gente mentre sta in ascolto dei profeti del desiderio. Per il più semplice dei motivi possibili, quello che si presenta sul volto dei bambini come annunciazione inaudita: mentre sto desiderando quel giorno, avverto che il mio cuore già inizia a trasformarsi. I miei giorni, i soliti-giorni, paiono avere una colorazione strana, un’agitazione felice, il sospetto che ci sia un qualcosa che, avvicinandomi ad esso, mi s’avvicina esso stesso. Da bambino non capivo bene questa faccenda della novena: però era quasi-magia farla prima di andare a scuola. Annate dopo, scoprii la genialità di chi me la insegnò: era una sorta di “scuola-del-desiderio”. La ritrovai abbozzata in pagine ad alta concentrazione di fede: «Liberare quella sana inquietudine che fa percepire con sempre maggiore chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore» (Benedetto XVI). L’inquietudine del Natale: uno di quei giorni che, senza fare la novena, è facile arrivi e se ne parta senza che l’uomo s’accorga.
(da Il Mattino di Padova e Il Sussidiario, 16 dicembre 2017)
{youtube}kqfgqhQVDm8{/youtube}