Famiglia, tra anacronismo e profezia

Anacronismo e profezia

Il rito ambrosiano, questa domenica pone i riflettori sulla Sacra Famiglia. Quasi un anacronismo, se pensiamo ai nostri giorni, in cui vediamo i matrimoni (in particolare, cattolici) in vertiginoso calo e una visione socio-politica  che ci offre uno sguardo sempre più pessimista, verso coloro che, andando controcorrente, hanno il coraggio di mettere al mondo dei figli.
Eppure, come spesso accade, anche la dura realtà quotidiana manifesta quei “segni dei tempi” che, solo ad uno sguardo profetico, rendono evidente come la realtà più intima del cuore dell’uomo rimanga inalterata e come un’ideologia slegata dalla realtà concreta rischia di diventare una sovrastruttura senza fondamento. Penso alla vicenda accaduta a Roma, che non può che scuotere le coscienze: di chi ha figli e di chi non ne ha. Perché solo il nostro mondo occidentale si ostina a vedere il figlio come una proprietà privata e non come una freccia, scagliata verso il futuro, che non appartiene a nessuno, perché è una creatura libera, ma di cui è responsabile l’intera comunità per il bene (ontologico) che rappresenta, al di là di ogni calcolo utilitaristico.

«Loro» purificazione

Nel brano evangelico, che ci presenta, quasi fossero un unico episodio (cosa che, generalmente, non era) la purificazione e la presentazione al tempio, con annessa circoncisione (se ne parla al versetto 21).
La prima parola che colpisce è quel “loro” nel primo versetto («Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale» – Lc 12, 22) del brano liturgico. A chi si riferisce questo “loro”? Maria e Giuseppe? Maria e il Bambino? Quello che è certo è che si tratta della redazione più antica, per cui sono casomai, le riscrittura successive a poter essere considerate  “attenuazioni” o “revisioni”.
Stando alla Sacra Scrittura, era richiesta purificazione solo alla madre (cosa che ha inorridito alcuni commentatori, considerando che si trattava non di una qualunque, ma della Vergine Maria). Origene però, lascia intendere come, ai tempi di Luca, fosse considerata necessaria la purificazione anche del bambino. Che, teologicamente parlando, ai nostri occhi, rischia di essere pure più scandaloso.
Naturalmente, bisogna comprendere la tradizione in cui ci si inserisce. Nel mondo ebraico il concetto di purità religiosa non era affatto legato ad un concetto di “sporcizia”, quanto piuttosto a qualcosa che sfuggiva al controllo umano, com’era il ciclo della vita e, in particolar modo, tutto ciò che è legato al sangue. Ecco dunque comprensibile il motivo per cui sia madre che figlio erano impuri: al momento del parto, entrambi, sono a contatto con il sangue, per cui entrambi richiedono purificazione.
È bello entrare in queste dinamiche, che forse sentiamo lontane dal nostro pensiero, per un motivo, principalmente: Lui ha deciso di entrarvi, come si dice, con tutte le scarpe. Ha condiviso, cioè, lo stupore timoroso che si cela dietro al mistero della vita, quando nasce e quando si spegne. Lasciandoci, però, in eredità, un germoglio di speranza che… non finisce qui!

La tristezza elusa

Il popolo ebraico attesta sempre grande gratitudine nei confronti dei genitori, intesi, in senso ampio, come coloro che generano. In questo senso, si può leggere anche la grande importanza ai patriarchi e alle loro mogli (pensiamo a Sara, Rebecca, Rachele). La loro importanza è nella generazione della prole, certo, ma anche nella loro educazione e nel loro esempio (basti pensare alla sottolineatura riguardo all’idolatria di Rachele che riveste sempre un ruolo eminente, nel pensiero ebraico). Forse, però, quello che più ci interroga, oggi, è un altro aspetto che mette in luce il libro del Siracide, cioè la tristezza elusa.

33La tua generosità si estenda a ogni vivente,
ma anche al morto non negare la tua pietà.
34Non evitare coloro che piangono
e con gli afflitti móstrati afflitto.
35Non esitare a visitare un malato,
perché per questo sarai amato.
(Sir 7,33-35)

Questi due versetti sono una vera e propria staffilata al nostro pensiero contemporaneo, che sforza una concezione vitalistica, spesso camuffando sottintesi eugenetici e utilitaristi. A parole, solidarietà sempre al primo posto. Tuttavia, spesso, la malattia, la tristezza, il lutto sono lasciati ai margini, non condivisi e il massimo dell’empatia si riduce ad un “presto andrà meglio”.
Perché, diciamolo, questi capitoli vorremmo eliminarli dalla nostra vita, quindi, siamo ben lungi dal desiderare di condividerli con gli altri. Questa mentalità del “colpo di spugna”, però, non è onesta. La vita, non solo quella biologica, ma quella umana nella sua accezione più ampia, è composta inevitabilmente di alti e bassi. L’afflizione non è una parentesi. È parte piena di ogni vita. Avere un cuore disponibile all’ascolto dell’altro, anche quando ci propone solo noia e tristezza, arricchisce sempre la nostra vita (anche solo perché è un esercizio di pazienza!), mentre evitarlo alimenta solo la nostra illusione, che, prima o poi, inevitabilmente, si scontrerà con qualche spigolo di realtà meno morbido di quelli cui ci siamo abituati.

Il Nunc Dimittis

Nel finale del brano evangelico, troviamo una pericope familiare per chiunque, almeno ogni tanto, maneggi la liturgia delle ore: il nunc Dimittis, cantico caratteristico della compieta, che conclude la giornata. Come Simeone loda Dio al termine della sua esistenza terrena, esso diventa lode a Dio a conclusione della giornata trascorsa: l’una e l’atra prospettiva racchiudono un tempo trascorso in un ringraziamento, ma, al contempo, lo aprono verso un oltre. Perché il riposo, pur assimilato talvolta alla morte, sappiamo come sia indispensabile al nostro corpo, per ben vivere e ben operare. Non siamo un ammasso di buona volontà, come ha suggerito Pelagio: siamo sottoposti a pressioni di ogni genere e la nostra azione non è in grado di essere del tutto libera, se anima, mente, corpo e volontà non sono allenati. E anche in quel momento, non è ancora abbastanza.

L’amore su tutto

Senz’amore, viviamo nell’illusione di poterci dominare come un animale alla catena. Ma le catene più efficaci sono sempre quelle dell’amore.

12Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, 13sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. 14Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. 15E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!
(Col 3, 12-15)

L’amore, Parola di Dio

Come un “ti amo” aiuta più di mille sermoni, perché, quando sincero, rimane impresso sotto pelle, come un tatuaggio indelebile, così, la Parola di Dio, in un cuore disposto ad accoglierla, penetra  più di una lama a doppio taglio,

“fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4, 12).

Perché, se la Parola, in Cristo, si è fatta carne, già in questo abbiamo l’attestazione più concreta che “Dio è amore” (1Gv) e che è nello sguardo reciproco con cui condividiamo la nostra umanità che un riflesso dell’amore di Dio può risplendere nel mondo.


Letture festive ambrosiane, nella Festa della Sacra Famiglia (Sir 7, 27-36; Col 3, 12-21; Lc 2, 22-33)
Per approfondire il brano evangelico e la sua esegesi, qui alcuni ulteriori spunti.
Fonte immagine: freepik


In calce, mi permetto di condividere qui (su Facebook, è pubblica, ma non tutti lo hanno e vi possono accedere) una riflessione sull’importanza della comunità, quando nasce un figlio:

«Nonna Livia, la nonna di Stefano che oggi ci protegge dal cielo, ha accompagnato la mia prima gravidanza con numerosi racconti di parti. Mi pare ancora sentirla: “Non vedrai il soffitto dai dolori, e ne ho visti io di parti: ho fatto partorire tutte”. Nei racconti dettagliati, pieni di miracoli, paure, sofferenze, fatica, il filo conduttore era l’amore. E il focolare. L’amore che custodiva: il neonato appena nato, ma anche la mamma.

Il parto era una storia che coinvolgeva tutti. A ciascuno il suo compito: gli uomini lasciavano campo libero alle donne, e le donne, tutte insieme , ad attendere, accompagnare, accogliere, la nascita della creatura, la nascita della mamma. A fare spazio. Anche quando si è iniziato a partorire in ospedale, tutti al rientro, erano lì. Ai loro posti.

Ricordate il cannone di Mary Poppins quando sparava? Nel racconto di nonna Livia trapelava questo: ciascuno sapeva cosa doveva fare, ciascuno faceva.

La gravidanza era sempre inaspettata e la vita che esplodeva era interesse di tutti. Era il momento della tenerezza, quella concreta: fare spazio al neonato, fare spazio alla mamma.E prendersi cura. Di entrambi. La maternità era una chiamata della comunità.
Un via vai generoso, forse anche invadente, ma generoso, accidente, fondante.

Oggi, la cifra stilistica della maternità è la solitudine, assieme ad una richiesta schiacciante di perfezione. Vuoi essere madre? Devi essere pronta.
Con l’aborto, la maternità è diventata un progetto, tutto della donna. Se intraprendi un progetto, ti sarai fatta i tuoi conti.
Non hai usato la contraccezione?  Non hai fatto ricorso all’aborto? (Non ascoltare tuo marito, o il tuo compagno: devi decidere te.)
Hai voluto la bicicletta? Ed ora pedali.
Non sei pronta? Potevi pensarci prima, arrangiati.
Sei stanca? Cavoli tuoi.
Non hai mai preso in braccio un bambino? Guarda qualche tutorial.
Ahimè, la nostra generazione ha vinto i regali del famigerato diritto all’aborto, che ha fatto del bambino il frutto di una volontà individuale in solitudine: un progetto che deve riuscire sulle tue forze.
La maternità non sorge più intorno ad un focolare, ma è diventato luogo di solitudine culturale, che oggi ti fa solo un invito: se vuoi essere madre SII PERFETTA, perché tuo figlio sia perfetto. La pressione sul bambino è terribile; la pressione sulla madre pesantissima.

I miei figli non hanno mai dormito tantissimo la notte, e tante volte, mi sono addormentata mentre loro ciucciavano. Alcune volte mi sono addormentata seduta e subito risvegliata. Altre, mi sono svegliata alla poppata successiva. Nel letto.
Penso alla ricchezza delle relazioni del mio ambiente che mi hanno custodito da questa solitudine, che mi hanno custodito da questa idea di perfezione, che mi hanno custodito dall’idea che il figlio è un mio progetto. E le auguro a tutte noi.

Liberiamo la maternità, anche restituendo la paternità ai nostri compagni, liberiamoci da questa gabbia culturale che ci siamo autoimposte.

Guardo Michele e Francesco. Respirano nel loro letto. Nonostante me. E ringrazio.
Penso alla mamma e al papà del Pertini. E prego per lei. Per loro. 
Sperando che la certezza del Cielo possa consolarli.»

(Maria Rachele Ruiu, mamma di due bambini in terra e una in cielo)

Una risposta

  1. È duro da accettare il fatto che un mattino ti svegli e trovi tua figlia senza vita. Di fronte a questo tutti i discorsi evaporano. È successo a una mia cara amica. Non so come potrà andare avanti. Sarebbe bello avere una formula pronta per l’uso.. Affidarsi e confidare? 🙏💓🙏

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