Quando Francesco toccherà la terra d’Albania, sarà come abbracciare anche tutti quei figli che dalla loro terra sono partiti: con viaggi di fortuna, stretti e costretti nei gommoni, illusi e forse delusi nelle aspettative. Nelle carceri italiane – dove la lingua ufficiale è l’albanese – la risposta a Francesco sarà immediata: certi passi hanno un valore simbolico che oltrepassa la geografia delle terre che toccano.
Sono passi che somigliano ad un riscatto collettivo, quasi il Papa prestasse il suo viaggiare a chi viaggiare non può o non può più. Francesco che presta i passi a Davide, detenuto in un carcere di massimo sicurezza: «Quando ho saputo che andavi a casa mia – scrive Davide in una sua lettera mai spedita a Francesco – il mio cuore si è riempito di gioia: ho ripensato subito a quei quarant’anni di dittatura che ci hanno rubato il nome di Dio dal vocabolario. Che ci hanno impedito la possibilità di un cammino di fede». Quella fede che in certe terre di periferia è tanto simile ad un fiume carsico: in certi attimi scompare sotto terra per poi ricomparire più in là, con maggior audacia. Un piccolo resto che riappare nelle condizioni più inimmaginabili: «La bellezza del Vangelo io l’ho scoperta nella piccola comunità cristiana qui dentro in prigione – continua -. L’anno scorso sono diventato cristiano e ho scelto il nome Davide».
Chi parte porta con sé solo le cose essenziali, il minimo per non morire. E dentro quest’essenziale c’è sempre una storia, la propria storia: «La mia storia ha un passato difficile vissuto di trasgressione e violenza – si confida al Papa -. Eppure mi sono trovato di fronte ad un Dio che mi ha preso per mano e trasportato nel suo amore». A loro la dittatura – forte di un pensiero unico – ha complicato tremendamente l’esistenza: ha tentato di cancellare loro la memoria, ha ostacolato il loro presente, ha ingarbugliato il loro futuro. Li ha mandati a spasso per il mondo. Una cosa sembra non esserle riuscita: spegnere in loro la luce della speranza, il desiderio di una storia diversa. Di un Dio della consolazione: «Ogni giorno prego per te, Francesco: sei per me un amico. Nella ristrettezza della mia cella ti accompagno nei tuoi viaggi perché ogni uomo possa vedere nel fondo del tunnel un raggio di Luce com’è capitato a me». Una Presenza che oggi diventa storia nei passi di Francesco, quasi una rivalsa sulla disperazione: laddove ha abbondato il deserto, oggi sovrabbonderà la sorpresa e lo stupore. Il canto di una storia d’amore – quella tra Dio e l’uomo – che nessun regime potrà mai cancellare. Al massimo ci si perderà per qualche attimo, com’è di tutte le storie d’amore: sembra che ogni tanto sia necessario perdersi per poi ritrovarsi. Quando ci s’incontrerà, magari anche solo simbolicamente, sarà un sentirsi a casa propria, un narrarsi la scoperta più bella: quella di non essere stati abbandonati dal Cielo. «Vorrei accompagnarti in questo tuo viaggio a casa mia – conclude -: per raccontare al mio paese la gioia d’aver incontrato Cristo. Per dire ai miei amici che la storia può essere diversa da quella che ci hanno raccontato. Non posso essere con te, per ovvi motivi. Ma ti accompagno con la mia preghiera. Fai buon viaggio, Papa mio (Armand/Davide)».
Il peso di un cammino: quello del Male che complica la speranza di un’intera generazione. Quello del Bene, sopratutto: che risana vecchie cicatrici lasciate nell’animo. Un Papa in Albania, degli albanesi dentro le prigioni d’Italia: anche questi sono i viaggi sorprendenti di Francesco. Che da vero “amico” va a rammendare la loro storia. Per conto di Lui ma anche di loro. Per conto di tutti.
(da Avvenire, 20 settembre 2014)