alessandrozanardi

Il mese della transumanza: dagli alpeggi d’alta quota – laddove, scriverebbe D’Annunzio, “i pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare” – alle stalle claustrali della terra pianeggiante. Fare transumanza è spostarsi da una terra all’altra, alla ricerca di condizioni migliori per traghettare stagioni calde o fredde. Settembre è uno dei mesi che meglio s’addice a celebrare storie di pastori e di viandanti, di mungiture e di fienagioni, di stalle e di forme di formaggio. E’ anche il mese che racconta una storia ch’è diventata troppo presto leggenda, sin quasi ad addossarsi i caratteri dell’impossibile: una favola che, parole dell’autore, in realtà altro non è che l’appassionata forza di cantare la vita anche quando questa si complica. Alessandro Zanardi è una di quelle persone che meglio di tutte sa raccontare l’arte di “fare transumanza”: non certo quella delle bestie e degli alpeggi ma quella ben più nobile di chi s’arrischia di passare dalla sponda della disperazione alla sponda della gioia. Settembre è il suo mese: era settembre quando firmò il suo capolavoro più bello, la nascita di Nicolò; era settembre il giorno in cui la Vita e la Morte si diedero inaspettatamente appuntamento nella pista del Lausitzring; era settembre il giorno della conquista della doppia medaglia d’oro alle Paralimpiadi di Londra. Fra qualche giorno la favola s’ingigantirà e forse tutti correremo il rischio di dimenticarci che la sua storia è tutto eccetto che una favola.
A contemplare le sue gesta e le sue imprese, ad ascoltare la freschezza dei suoi racconti e la nobiltà della sua ironia, a stringere quelle braccia che tengono la forza del cemento e la malleabilità del ferro accaldato c’è da innamorarsi della Vita stessa, anche quando questa ti pianta e ti costringe a succhiare la polvere del sentiero fin quasi a maltrattarne la sua perfida bellezza. Forse proprio per questo la storia di Alex non è una favola: ridurla a diventare tale significherebbe togliere quel senso di passione e di caparbietà, di amore e di estasi, di potere e di volontà che sono insite dentro le fibre di questo lottatore capace di vendere carissima la sua pelle. Diventasse favola, qualcuno potrebbe sempre dire: “questa è una favola, non una storia” e potremmo arrischiarci di trovare il significato nascosto, quell’intenzione che abitava dentro il pensiero dell’autore, quel pizzico di insegnamento nascosto in essa. Invece più che favola questa è una splendida fotografia di cosa può diventare capace l’uomo: s’affina la tecnologia, s’aguzza l’ingegno, si brevettano aggeggi sofisticati ma al centro di tutto rimane sempre l’Uomo, questo mistero nel quale più t’inabissi più ne esci ignorante delle sue potenzialità. L’uomo con tutta quella genealogia che ha fatto di lui l’essere più invidiato della storia: pensiero e azione, immaginazione e creazione, stupore e sopportazione. E quell’inimitabile capacità di sognare e di sorridere in faccia alla vita, qualunque essa sia.
Del suo primo giorno senza gambe disse: “un grande giorno, una forza pazzesca che mi ha fatto venire una gran voglia di vita. Mi sono immaginato subito lì al lavoro, a armeggiare con la chiave da 4 millimetri per le mie protesi. A stringere viti e bulloni, a sporcarmi le mani e a pulirle con la pasta”. Dimenticò di dire che da quel giorno milioni di persone avrebbero iniziato a guardarlo non con occhi di compassione ma con occhi di malcelata invidia, per quel piglio coraggioso e ironico che l’ha reso più abile quando iniziarono a chiamarlo disabile. Forse che amare la vita significa proprio questo: in qualsiasi punto ti trovi, in qualunque disordine tu possa abitare quello sarà il punto di partenza per un nuovo viaggio di scoperta. Perchè, da qualsiasi prospettiva tu la guardi, la Vita rimarrà sempre il palcoscenico più bello nel quale diventare attori e protagonisti della propria esistenza. Alla faccia della disabilità.

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