Shoes

Durante queste domeniche di  Pasqua, vediamo sbocciare le prime comunità cristiane della nascente Chiesa. Non si tratta, però, di una fioritura in una serra, al riparo dalle intemperie e dalle avversità; al contrario, sappiamo bene, dai racconti di Luca negli Atti degli Apostoli o dalle lettere apostoliche, come il Regno di Dio, soprattutto nei primi tempi (ma anche in quelli attuali) si sia fatto strada tra mille peripezie e – in particolare – tra feroci persecuzioni: in quell’epoca, prima dei Giudei e, in seguito, da parte dei Romani.
La prima lettura ci propone le vicissitudini di Paolo a Roma, che – complice la cittadinanza romana e un’accusa piuttosto confusa nei suoi riguardi – riesce ad avere qualche agevolazione, che gli consente di cercare alcuni Giudei, abitanti nella Città Eterna.
Forse, tra le tante cose che diamo per scontate, nella nostra fede, c’è anche Paolo, l’Apostolo delle Genti. Difficile accentuare i meriti di quello che, molti storici delle religioni, in un certo senso, il vero organizzatore ed ideatore del cristianesimo: in effetti, non solo ha fatto da mediatore, intercedendo in favore dei pagani, andando anche contro le “chiusure” del Capo degli apostoli in più di un’occasione, ma si è reso protagonista di quella che si rivelò, per così dire, una sistematizzazione della teologia cristiana (senz’altro presente nei Vangeli – che, però, con eccezione di quello di Marco, furono senz’altro redatti successivamente rispetto a diverse lettere paoline). Talvolta, però, più che tessere lodi, è utile immedesimarsi in un vissuto. C’è un’espressione anglosassone (“to walk in ones’ shoes”) che ben rende l’idea di cosa sia l’immedesimazione. Solo dopo aver indossato (e camminato) con le scarpe di un’altra persona, si può comprendere ciò che la riguarda. Senza approfondire l’altrui vissuto, come possiamo comprendere i pensieri e le azioni di qualcun altro che non siamo noi stessi (quando persino noi stessi, tante volte, diventiamo un enigma da risolvere!)?
E quello di Paolo, che fu Saulo di Tarso, è senz’altro lacerante. Originario di una famiglia benestante e convintamente religiosa, ben istruito non solo nella fede, il giovane giudeo si dimostra fin da subito uno dei più accaniti persecutori di quella che la prima lettura chiama “setta”, cioè i cristiani, dal momento che i più attenti lo ravvisano già presente durante l’episodio della lapidazione del diacono Stefano. La conversione fu per lui sicuramente un evento traumatico. Non cadde da cavallo, come s’immagina Caravaggio, per il semplice motivo che stava procedendo a piedi, dal momento che, giudeo intransigente, non intendeva condividere il cammino con le guardie, che pure il tempio gli aveva assegnato. Tuttavia, da quel giorno, nulla, per lui, fu come prima. Innanzitutto, perché dovette passare un periodo di cecità. Ed affidarsi ad Anania, un cristiano, per la guarigione. Un cristiano, uno di quelli che andava a prendere perché fossero arrestati. E loro sapevano che Paolo stava venendo a Damasco per quello. Il periodo iniziale non fu semplice per nessuno: solo confidando in Dio, le comunità cristiane e Paolo riuscirono a superare le reciproche ostilità e diffidenze e a guardarsi negli occhi. Il prosieguo fu reciprocamente benedetto, perché Paolo fu apostolo, difensore, evangelizzatore ed intercessore nei confronti dei pagani e, del resto, in un rapporto di reciprocità, Paolo, proprio nel rivolgersi ai cristiani di Roma, sottolinea così il reciproco conforto:

«Desidero infatti ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, o meglio, per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1, 11-12).

Senz’altro, il confronto con chi è diverso, quando schietto e onesto, può diventare luogo e motivo di crescita umana e personale. Tuttavia, è bene ricordare come la fede non sia mai una conquista personale: è nella comunità che trova il proprio habitat naturale, è nel confronto coi fratelli nella fede che si chiarisce, si fortifica e si rinsalda, evitando di prendere derive che allontanando dal centro, cioè Cristo stesso, cuore della Chiesa.

Tornando alla prima lettura, colpisce, del resto,  quella parola. Setta. È buffo riflettere su come, cambiando prospettiva, la visuale possa essere radicalmente differente. Rispetto ai giudei dei primi tempi, quegli uomini di Galilea che vaneggiavano di Resurrezione, appellandosi alle Scritture (come Paolo, del resto, fa con gli Ebrei di Roma) non sono altro che dei fuoriusciti, dei “correligionari che hanno sbagliato” e su cui pende, del resto, un alone di sospetto perché le loro idee innovative puzzano del fuoco della Geenna. Siamo poco abituati a sentire questa espressione, in riferimento a quella che, pur nascente, è la Chiesa di Cristo. Siamo assuefatti ad essere sempre dalla parte del “giusto” e sentire quell’appellativo di setta, per di più proveniente dalla Scrittura, ci risulta persino stonato, fuori posto. Dal punto di vista ebraico, ciò è più che comprensibile: è forse più credibile di quella sacerdotale, la parola di una scalcagnata compagine di galilei, per lo più dediti alla pesca? Anche per questo, la presenza di Paolo nel numero degli evangelizzatori acquisirà un rilievo non banale, con la sua preparazione teologica, oltre alla sua provenienza dal giudaismo, condivisa con la maggioranza dei cristiani coinvolti nella primissima evangelizzazione.

La sagace penna di Luca riesce a far emergere, tra le righe, quello che freme nel cuore, lacerato, di Paolo. Arrivato a Roma, la prima cosa che chiede, quando ha speranza di ottenerla, è di vedere i “notabili dei giudei”. Paolo è un figlio d’Israele, che ne ha seguite le leggi con accuratezza, fin dalla sua giovinezza, come il giovane ricco d’evangelica memoria (o come il figlio maggiore, nella parabola del Padre misericordioso). Con una differenza rispetto ad entrambi, per quanto ci è dato sapere. Ha saputo mettersi in discussione, in modo radicale, lasciando che la grazia agisse in lui così da trasformarlo radicalmente: da persecutore della Chiesa a “strumento eletto” (Atti 9,15).

Questo però, non significa, naturalmente, che, travolto dall’impegno pastorale, Paolo abbia dimenticato le proprie origini. Anzi, al contrario: così come è consapevole di quanto abbia messo alla prova la pazienza di Dio, si ritrova a fare i conti con la libertà che Dio lascia ai popoli, così come ad ogni singolo essere umano.

Con il lutto nel cuore, per essere nato in seno al popolo d’Israele,  e con rammarico umanissimo, l’apostolo si rende conto che, nonostante sia il popolo eletto (e la Parola divina non può essere ritirata!), la sua salvezza non è scontata, perché Dio garantisce, fino alle estreme conseguenze, la libertà di aderire al suo progetto, ma non lo impone, per nessun motivo.


Img: manningmedia

Rif: letture festive ambrosiane, nella III Domenica di Pasqua, anno C

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