Come il più nefasto tra gli indirizzi di Pagine Bianche: “Via Ardeatina 174, 00147 Roma. (065136742)”. Quella che un tempo era una cava di pozzolana, è oggi l’abitazione di 335 civili e militari italiani fucilati dalla furia nazista. Il massacro fu organizzato ed eseguito da Herbert Kappler, all’epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, con la preziosa collaborazione dell’ex-capitano Erich Priebke, morto l’11 ottobre di questo mese, nella settimana in cui si celebra il 70° anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma: la storia, come la Provvidenza, sembra non avere nessun pudore quand’è in ballo la smemoratezza umana. Tra rabbia e vendetta s’è consumata la sua vita umana; tra rabbia e vendetta si è giocato il destino delle sue spoglie appena morto. Sembra proprio che certe persone muoiano come hanno deciso di vivere. Facendo della loro morte il testamento di una vita.
Quello nazista era un pensiero che non riconosceva la pietas, tratto divenuto inconfondibile di altre pagine dell’avventura umana. L’arroganza della loro superiorità non si limitava alle torture ma sfidava anche la dimensione della memoria: alle vittime era vietato qualsiasi gesto di rispetto e suffragio, quasi non fosse bastata la barbarie perpetrata. Ne fecero le spese milioni di ebrei, di zingari, di nomadi e di disabili che nemmeno in punto di morte ebbero diritto alla pietà. Ora tocca a uno di loro: il grido di quelle vite strappate sembra chiedere un risarcimento, sembra giunta finalmente l’ora della vendetta e della barbarie, l’arrivo delle tempeste veterotestamentarie dell’occhio e del dente da strappare. La vendetta come risposta alla vendetta: è davvero l’unica chance possibile? Erich Priebke è morto non-pentito, tracotante della medesima arroganza che lo rese tristemente celebre in vita. Rispondergli con la violenza è come dirgli “ci sei anche da morto”. Nelle parole di Aharon Appelfeld, scrittore israeliano sopravvissuto alla Shoah, sta forse il giusto mezzo tra vendetta e perdono: “Priebke sarebbe felice di essere odiato. Seppelliamolo in silenzio senza perdono”. Perchè non degnarlo della sepoltura (cosa diversa dal celebrare il funerale, ndr) sarebbe come allinearsi al suo pensiero criminale, il pensiero di una generazione di perdenti come ha puntualizzato Marco Tarquinio dalle pagine di Avvenire.
Rimane quella salma sopra la terra: dove sistemarla? La madre Germania non lo vuole: eppure c’è una responsabilità più grande che va oltre il dramma personale di quest’uomo. L’Argentina nemmeno. Che fare di quelle spoglie che raccontano di una vita muta e buia? Forse il posto più azzeccato – come suggerito da un bambino al quale hanno spiegato in questi giorni a scuola la storia – sarebbe proprio all’indirizzo sopracitato: via Ardeatina, 174 (Roma). Non in mezzo alla folla sepolta, potrebbe sembrare un doppio eccidio: quelle tombe silenziose e pressanti meritano la tranquillità della memoria. Appena fuori da quel cimitero, magari dall’altra parte della strada, “separato dall’asfalto” ha specificato il bambino: di qua non c’è posto. Non sarebbe mancanza di rispetto né di gravità nei confronti di nessuna delle parti. Rimarrebbe una presenza muta, imbarazzante. Forse stando lì, di fronte alla sua responsabilità, scrutando i volti inquieti e i passi lenti di coloro che escono potrebbe rileggere quell’aggettivo “non pentito”. E, nel contempo, dire ad ogni viandante che ivi s’approssima: “questo sono io e questo è l’uomo quando pensa di essere Dio”. Infatti, ciò che amavano incidere nelle cinture – “Dio è con noi” – attesta il duplice volto della responsabilità: quella di fronte a Dio e quella di fronte alla storia. Perchè, come ha accennato qualche tempo fa Papa Francesco, c’è anche una responsabilità di fronte alla storia della quale rendere spiegazione e, se possibile, chiedere scusa: negare o non conoscere ciò che è successo prima di noi è come voler rimanere sempre dei bambini.
Sotto l’egida dello struzzo, celebre per nascondere stupidamente la testa sotto terra convinto che nessuno lo vedrà.