papa

Il trucco è sempre rimasto quello d’allora: immaginarlo vecchio, sorretto dal bastone, carcerato in uno di quei capitelli col vetro-blindato: per proteggerlo, per arginarne l’impeto. È così che ci hanno abituato ad immaginare Giuseppe, il papà di Gesù di Nazareth, nella cui festa si onora il mestiere di tutti i papà. È davvero nato-vecchio quest’uomo? Anche no: «Era un uomo sui trent’anni, un bell’uomo – così lo ritrae la penna mistica di una donna come Maria Valtorta -, capelli corti e piuttosto ricci, di un castagno dorato come barba e baffi. Ha occhi scuri, buoni e profondi, seri molto, anche un poco tristi. Ma però quando sorride divengono giovanili». Nessuno, tra gli evangelisti che narrano qualcosa che lo riguarda, parla di lui come se fosse un vecchio. Perché, dunque, strappargli di dosso quegli anni di giovinezza, le ore colorate dell’amor cortese con Maria?
Chi, primo tra gli umani, l’ha ritratto così, lo fece per proteggersi dalla storia di lui più che dalle intemperie. “Troppo scomodo uno così. Invecchiamolo, mettiamolo dentro un capitello, gettiamo via le chiavi!” Perché è assai scomodo pensare che Giuseppe sia stato un giovane: amante tutto d’un pezzo, così orgoglioso del suo artigianato da proporlo come apprendistato al Figlio di Dio. È uno di quegli uomini che si vorrebbe non fossero mai nati, per il semplice fatto che ci ricordano chi possiamo diventare tenendo i piedi per terra, lo sguardo al cielo. È uno dei santi più inflazionati della storia, ma nel Vangelo non c’è traccia di una sua parola: solo pensieri, divagazioni, ripensamenti. Viaggi, spostamenti, eremitaggi nel retrobottega. Eppure, a conti fatti, in sorte gli toccò d’accettare la carriera che il Cielo gli aveva cucito su misura: aiutare Dio-Bambino a integrarsi bene dentro il paese di Nazareth, uomo tra gli uomini. Il 19 marzo la Chiesa lo celebra “sposo-di-Maria”, anche papà-di-Gesù: dentro quella casa – poggiata al fianco di altre case, com’è delle case dei poveri – alla mamma spettò il compito di tenere i contatti col Cielo, al papà di aiutarlo a tenere i piedi a terra. La loro fu la scuola-elementare alla quale sedette Dio: l’educazione civica, la catechesi cristiana. Lo sposo e la sposa uniti nel tentare d’insegnare al Cristo l’avventura più ostica ed esaltante che la storia trattenga: quella di diventare uomo.
Non nacque vecchio Giuseppe: fatelo uscire da quei capitelli, toglietegli il bastone dalle mani. Non nacque nemmeno padre: lo divenne quando il Cielo gli fece arrivare il Figlio, con un’acrobazia ancor oggi scomoda d’intendere. Padre lo divenne, esattamente come mio padre: diventare padre non è difficile, essere padre è la cosa difficile, la forma di esaltazione suprema. Lo divenne in silenzio, con una responsabilità schiacciante mai più capitata a nessun uomo: “Mio padre – confessò dall’ambone un figlio al funerale del papà – non mi ha mai detto come dovevo vivere. Guardandolo mi sono accorto che stavo diventando uomo. Grazie, papà”. Riuscire ad essere padre-Suo: questa è stata l’avventura di Giuseppe-carpentiere. Un papà con tutti i suoi dubbi: “Che padre sarò stato, Myriam? Uno zimbello?” La sposa: “Ti amava, Josèf. Andava fiero del tuo stare-al-tuo-posto”. Così fiero d’avergli strappato il segreto della sua bottega: le sedie rotte non vanno gettate, s’aggiustano. Il mondo dirà che “costa meno comprarne una nuova piuttosto che aggiustarla”. Cristo darà sempre credito a Giuseppe: le storie-guaste, i cuori perduti, non li getterà. Applicherà l’arte del restauro anche Lui: quando li rimetterà in circolo, conquistarenno i palati più fini, stordiranno i vecchi detrattori. Padre-di-Gesù: la responsabilità, da giovane, fu schiacciante. Oggi, tra migliaia di santi, è l’unico che possa rinfacciare al Cristo: “Ricordi? Ti ho assunto io a lavorare”. Liberiamolo dalla vecchiaia e dai capitelli: che i papà, almeno oggi, possano sognare un giorno d’assomigliargli a più-non-posso.

(da Il Mattino di Padova, 19 marzo 2017)

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